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Andrea Leone (Milano) ha scritto L’Ordine (2006, Premio San Pellegrino opera prima), Il suicidio di Holly Parker (2008), Lezioni di crudeltà (2010), La sposa barocca (2010), Scena della violenza (2013), Kleist (2014), Hohenstaufen (2016, Premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Ludwig (2022).
Luca Doninelli, "Il Giornale"
Come poeta è stato la rivelazione del 2006, ma da sempre bussa alla porta del romanzo. Si chiama Andrea Leone e probabilmente è un genio. Leggete il suo romanzo d’esordio, incontrollato, folle, in cui la materia travolge la forma, con tratti bui,lunghi h rettilinei cui si alternano accensioni letterarie, svolte improvvise di inaudita forza. S’intitola Il suicidio di Holly Parker. È la storia di una passione letteraria, di una vita inaccettabile da cui si sprigiona una volontà di suicidio che si dà senso identificandosi con l’opera letteraria di un altro suicida celebre.
Paolo Bianchi, "Libero"
Puntare alto, senza compromessi. C'è chi lo fa, nella narrativa. Parliamo di un libro come Kleist di Andrea Leone. Un libro che corre via come un flusso di coscienza; una prosa battente, iterativa, che si avvolge su se stessa in spirali vorticose. L’autore si cala nei panni, o meglio nella testa, di Heinrich von Kleist (1777-1811) il nobile tedesco autore fra l'altro del dramma Il principe di Homburg che qualche storico della letteratura annovera tra gli anticipatori del romanticismo.
Giuseppe Iannozzi
La condanna è una sola: vivere, essere, esistere, ma solo per replicare le azioni e i pensieri della massa. Andrea Leone, attraverso Kleist, monologo tanto dostoevskiano quanto camusiano, con qualche accenno a un esistenzialismo kierkegaardiano, è un miracolo, un accadimento speciale nella Letteratura italiana, un lavoro controcorrente che disegna alla perfezione lo sbandamento sociale dell’uomo contemporaneo, pressato da troppa inutile informazione e viàtici massificati.
Kleist è un romanzo, una pièce teatrale, una opera filosofica. E’ tutto questo, e forse di più.
Kleist, protagonista assoluto del romanzo, non ama la società, perché questa gli è stata cucita addosso facendolo prigioniero. Il solo modo, che ha per non allungare le fila dei Kleist, è quello di darci un taglio. Seppur sia evidente che Kleist è febbricitante, ciò non toglie una virgola alle verità che egli espone con una lucidità esistenzialista che non teme le scalfitture del tempo.
E’ una insperata fortuna incontrare scrittori da combattimento come Andrea Leone, un autore forte di una cultura e d’una verve difficilmente riscontrabile tra i seppur tanti colleghi delle patrie lettere. Kleist rappresenta una lettura, a mio avviso obbligata, perché Andrea Leone non si limita a raccontare: nel suo romanzo, sotto forma di monologo, espone una miriade di concetti filosofici, ma soprattutto storicizza l’uomo contemporaneo, scattandogli una fotografia che lo inquadra sotto ogni punto di vista possibile. Il peccato, oltraggioso e non perdonabile, è uno e uno solo: non leggere Kleist, perché il lavoro di Andrea Leone è una dichiarazione di libertà e di emancipazione dalle ataviche soggezioni. Kleist è un moderno Spartaco che combatte l’ipocrisia della società, le tante imposture del pensiero globalizzato.
Manlio Benigni di "Rolling Stone"
Libro incredibile, enorme, splendido. Capolavoro. Miracolo. Un Unicum dal respiro transnazionale. "Kleist" è un'esperienza unica e sconvolgente. Il mio libro preferito del 2014. Tutto il resto è carta stampata.
Manlio Benigni
Dopo "Kleist", temerario e visionario flusso di coscienza dentro la testa del grande scrittore tedesco colto nelle sue ultime ore di vita, ecco "Hohenstaufen", un altro capolavoro di un poeta vero e sommo, unico e altissimo ,uno dei pochi, rarissimi esempi di voce lirica limpida e già classica.
Un poema, con sprazzi di prosa, in 20 movimenti di romanticismo colossale e lirismo eroico. Un viaggio a ritroso verso le radici della storia europea e le fonti dell'ispirazione poetica. Andrea non teme di avventurarsi nella landa scivolosa del sublime e ne riemerge trionfante da vero Leone.
Giampiero Marano, "Critica italiana"
L’esistenza di un legame fra la violenza e la gestazione, fra la catastrofe e la nascita, è cosa nota (ma forse non abbastanza meditata): quattro miliardi di anni fa, a quanto pare, fu proprio una terrificante pioggia di comete a portare sulla Terra le prime molecole di carbonio e quindi la vita. Alle leggi della biochimica non sfuggirebbe neppure la letteratura: “Il suo // è passo di cometa: brucia e non scalda, / cuoce e non matura”, scriveva Marina Cvetaeva in una lirica memorabile, "Il poeta". A volte anche l’energia creativa della parola può rivelarsi una forza demoniaca, portatrice di una carica ostile e minacciosa che giunge da lontano, come suggeriva la stessa Cvetaeva.
Troviamo certamente questa idea di letteratura all’origine dello stupendo romanzo "Kleist" di Andrea Leone (ed. 20090, 2014, 108 pp., 8 euro). Il protagonista, il grande poeta e drammaturgo morto suicida nel 1811 poco più che trentenne, è qui presentato nella veste di ufficiale dell'esercito prussiano, nel quale prestò servizio giovanissimo. Al cospetto di due commilitoni che lo ascoltano sbalorditi e in totale silenzio, Kleist si profonde in un lungo monologo, nello stesso tempo lucidissimo e delirante, accompagnato da gesti ossessivi, sguardi persi nel vuoto, scatti epilettici.
Kleist vede la nascita come una dannazione, uno “shock incomprensibile” che determina la caduta in quel “precipizio allarmante e inesorabile che è il mondo fisico”, da lui anche definito “un gigantesco penitenziario”.
La condanna coinvolge inevitabilmente la società e le sue istituzioni, considerate alla stregua di manicomi o carceri che educano al terrore dell’autorità e all’obbedienza più cieca. All’ombra dello Stato etico il suicidio diventa allora un gesto vitale, mosso com’è dal rifiuto della vera morte, essenza della natura e della civiltà.
Il pensiero che con la forza della parola sia possibile creare o distruggere mondi e vite può apparire un superstizione romantica, un curioso residuo del passato.
Ma per Leone, molto attirato dall’esplorazione del lato oscuro e sinistro della letteratura, esso corrisponde a un dato di fatto, a un’esperienza concreta: quella della salute o, meglio, di un mortale eccesso di salute. Come nella "Pentesilea" esclama il personaggio di Protea, commentando il suicidio della regina delle Amazzoni: “E’ caduta, perché fioriva troppo fiera e vigorosa!”
Michelangelo Zizzi, prefazione a Lezioni di crudeltà
Scrivere una prefazione ad Andrea Leone è come andare a vedere uno spettacolo nell’anfiteatro Flavio dopo aver inalato in una sola inalazione tutto il tabacco incatramato di una camel senza filtro, il giorno dopo quello in cui Cesare stravasò con arti divinatorie il Rubicone.
Da lente contrade meridionali dove la resistenza ai bivacchi cartesiani delle metropoli è, per chi scrive, una sosta tra alcoli ingurgitati in un fiato e agone inattuale di gioco di carte di vecchi seduti ai tavoli, l’opera di Andrea Leone vi entra come il pistolero nel far west, il temporale estivo, la rete all’ultimo minuto di una finale mondiale.
‘Lezioni di crudeltà’ ricorda che la poesia esige un’epica, uno stato di travaso dalla solita sonnolente plaga in cui s’affossa con la zappa delle avanguardie e dello sperimentalismo per tutto il ‘vecchio’ Novecento.
Così del mondo (moderno) del quale, secondo il tempo verbale dell’imperativo di Leone e non il tempo al presente, è possibile il solo catalogo del collasso, l’auspicio (proprio nel senso forse involontario di un aruspicino) è riconoscere la bellezza fuori dal canone d’ogni algoritmo: la bellezza come numero / che nessuno ha mai calcolato; / uno spavento perfetto, / cresciuto nel crepuscolo dei corpi, / e tutte le feste delle scomparse / e del presente che foste.
Questa controlezione sul ‘modo’ del moderno, questo spostamento verso il centro incalcolabile dell’essere stato al mondo (già al passato), questo riconoscimento della metà di caso (il non essere leggibili, neanche all’interno della più deflagrante metafora della poesia data in endecasillabi: Ragazza che la perfezione ammala) e della metà di necessità – fatum rappresenta il modo più franco di ‘vedere’, nel senso della visione, di ‘sentire’ nel senso di un meditazione cardiaca la poesia oltre il cronotropo della relazione di un ‘qui ed ora’.
Il presente imperativo della poesia di Leone è il futuro imminente del ritorno d’epica (Ora perché si compia / ciò che fu promesso un tempo), la sua misura è la grandezza incalcolabile ma nitida (Noi sentimmo dunque / il nostro intero viaggio terreno / nell’abbraccio di un giovane / cielo di esattezze estreme; Bellissimo è soltanto / ciò che è incomprensibile. / La pelle delle perfette / primavere ci insegnò / il dovere di morire. / Il volto nuovo ci colpì / un giorno d’aprile / all’inizio della dimora), il suo ritmo sia la perfezione all’interno del corpo, che l’aritmia e l’entropia nella relazione col corpo del mondo esterno.
Nella poesia di Leone, come nella migliore tradizione italiana, c’è la ‘pax iuxta’ dopo il confliggere di una lotta necessaria. Ed è per questo che l’autore, per potenza stilistica ed orientamento del ‘modo’ a nostro parere tra i migliori della storia della poesia degli ultimi decenni, deve essere considerato ‘classico’.
Non il classicismo di un Quasimodo, modulato secondo le note silvestri della canna di Pan virgiliana, né quello della limpida moderazione d’immagine di un Penna; ma quello marziale, fondativo e iniziatico (involontariamente nel caso di Leone) di un Orazio delle odi, degli sitlnovisti, di un Nietzsche e persino, seppur senza coniugazioni lessicografiche, di un D’annunzio, senza dimenticare alcune sequenze sintagmatiche degne del miglior Campana.
Va da sé che l’epos di Leone non è il colpo di dadi dato al tavolo – teatro del post-moderno per eccesso di citazione: in quel tavolo dove i commensali satolli dal lusso delle correnti socialdemocratiche e liberaldemocratiche hanno appena finito di sorseggiare l’amaro.
Vogliamo dire che l’epos di ‘Lezioni di crudeltà’ nulla a che vedere con la necessità sociologica di rivedere le categorie della letteratura : come hanno fatto, ad esempio, qualche anno fa i Wu Ming, che sono un gruppo di borghesucci bolognesi animati dall’infaticabile regia della semiosi echiana, quando hanno riproposto una letteratura d’epica.In ‘Lezioni di crudeltà’ non vi è infatti macchina semiotica; e non vi è perché il poeta è la poesia e non fa la poesia; del resto semiotizzare il mondo è il risultato di un distacco avvenuto con esso; del resto la semiosi nasce dal sistema di democratizzazione dei segni: ed invece i veri poeti sono antidemocraticci, antidemocratici soprattutto rispetto a s stessi.
L’epos di Leone è il risultato del distacco, dell’assenza, dell’estraneità ad un cronotropo. E se pure vi sussiste, il che è vero, un certo compiacimento autodeterminato in questo distacco, nondimeno può negarsi che esso non ha nulla di emulativo, bensì di veritativo ed autentico.
Se Leone assomiglia, oltreché alla tradizione italica migliore, a certa poesia mitteleuropea, per esempio nell’aspetto dell’algida celebrazione di un lutto non del tutto spiegabile, vi assomiglia per concordanza interna e non per postura attoriale.
Poiché quello che questa poesia inattuale e discesa dalla bocca delle idee (eidòs) o degli Dei ha un pieno di imminenza tragica (Feste della fine, / miracolo morente calcolo / gli errori, gli annali / dei troppi nomi corrotti) e ineluttabile ed un vuoto di semiosi.
Solo nell’azione e nella prassi (nell’evento dunque e nell’attenderlo dunque) c’è abolizione della semiosi, la quale vogliamo ricordarlo, esiste solo nella relazione tra sé ed un altro.
Ecco l’ulteriore elemento di distacco dal fare poetico dell’officina novecentesca e postmoderna: la poesia di Leone è conchiusa in sé, non è dialogica, ma monologica: come la parola degli Dei essa detta e agisce, ovvero registra e ‘vede’ ciò che è avvenuto. Tale dinamica sottrae la stessa poesia al destino di reperto e di autoconsumazione.
Nel punto focale in cui Leone appare pervaso dalla possibilità di essere nella macchina attoriale, è smentito dalla stessa poesia che è in questo autore una necessità e non un’opzione. I frequentissimi lemmi ‘malattia’ e ‘crudeltà’ e le loro forme derivate, agiscono in quest’opera come la cartina al tornasole che svela verità e non come pulsione neurologica e biografica alla messa in scena della morte e del lutto.
Anzi, per smentire ogni ossessione moderna alla biografia, alla ‘propria’ biografia, diremo che questa poesia è tutt’altro che biografica persino laddove compare in anafora il termine ‘io’: io sono il delirio dei nomi estremi. / Io sono le insegne del tempo / che fu straniero. / Io sono la feroce / festa che si dissolve.
Quell’io moltiplicato, fuorché essere compulsione egopatica, è limpidezza d’ambire ad una migliore aristocrazia del sentire – vedere ogni cosa.
La poesia di Leone è originale perché ontica, imperativa e senza scampo, perché essenziale.
L’urgenza dell’essenziale non ammette slittamento, né modo, perché la forma riposa in sé e non in un’altra forma.
Sontuosa è l’opera di Leone per questo ‘non eliminabile’, questo non addizionabile né sottraibile che sta nell’essenziale; a differenza della biografia che è solo uno dei modi per raccontare una vita specifica e quindi qualcosa che può slittare, diminuirsi o aggiungersi proprio perché ‘spostata’ sempre, per ogni volta.
‘Lezioni di crudeltà’ ha il suo oggetto non oscillante non vicariante che è la poesia stessa, non riferita più ad altro: la vita in sé: Dèi perfetti di una nascita / una sola volta amata!
Poesia immensa, che i poeti minori (ma tutti i poeti, tranne 12, sono minori) di quest'Italietta, dovrebbero leggere, anzi mandare a memoria. Per ricordarsi di non scrivere, non scrivere altro e mai più.
Milo De Angelis, prefazione a L'Ordine
L'Ordine è un libro del Nord. Nord della terra e del pensiero, dei paesaggi e dei maestri. Sembra uscito da un film di Carl Theodor Dreyer, con il suo bianco e nero teso e allarmante, minacciato dal giorno del giudizio.Con il suo stile da ultimatum, con i suoi sostantivi monolitici e precisi, Andrea Leone ci conduce nelle stagioni trascorse e le intreccia a questo finale di partita. Finale vivissimo, scritto a lettere di sangue. Scagliandolo addosso a tutti noi con la forza di un epilettico, ci consegna il suo verbale e la sua invocazione.
Carmelo Caudio Pistillo
Andrea Leone è una voce originalissima e unica della letteratura. Ha uno stile sontuoso, ricco, magnificente. E' la lingua del male che ti afferra e ti seduce, per poi resituirti purificato e libero.
Alessandro Bellasio, La poesia e lo spirito
Un’adolescenza bruciata e bruciante, contrassegnata da un disagio sanguinoso e da una sete assoluta di conoscenza, dalla volontà ferrea di far proprie le vette siderali della mente e dello spirito; tutto intorno, il nulla, il deserto “che cresce”, la desolazione feroce di una immaginaria ma materialissima metropoli. È questo il mondo in cui Andrea Leone traccia la parabola di Holly Parker, figura singolarissima e senza parentele immediate nel panorama delle lettere nostrane, protagonista di un romanzo compulsivo, ossessivo, barocco, ma al tempo stesso sorretto da una geometria rigorosissima e da un disegno potente: restituire fin nei minimi dettagli, fino alla paranoia analitica e al parossismo sintattico, il viaggio, iniziatico e assoluto, di un’adolescente sensibilissima e intelligentissima attraverso i meandri più oscuri e disastrati dell’esistenza umana. Affrontando, in maniera lirica ed efferata, quello che Holly stessa comprende infine essere «l’unica nostra reale natura: l’intollerabile».
Ecco, tutto il romanzo – abitato da quella stessa perentorietà percussiva a cui ci ha abituati Andrea Leone poeta – è chiuso e concluso intorno a un’unica idea dominante, è captato da un magnete segreto che impedisce al lettore, malgrado il crescente malessere da cui si sente invaso, di interrompere la lettura. Si è quasi obbligati a continuare, come Holly, trascinati nell’allucinazione e nel disastro da una specie di forza centripeta, che risucchia nelle pieghe morbose, nelle spire splendidamente ossessive di questo romanzo torrenziale e luciferino, travolti dal suo pathos non meno che dalla tremenda consequenzialità della vicenda. Vicenda quanto mai semplice, archetipica: Holly Parker, studentessa adolescente «dedita giorno e notte alla letteratura» e agli aspri territori dello spirito, si imbatte un giorno nel capolavoro postumo di Wilhelm Friedrick, genio precoce delle lettere europee, prematuramente scomparso. Il libro in questione si intitola Malattia e tempo, e Holly ne viene a tal punto folgorata che, con la violenta dedizione all’ideale che solo l’animo vergine dell’adolescente può perseguire a costo della vita, decide di dedicare la propria esistenza alla ricerca della verità sul giovane e misterioso genio tedesco, del cui transito terreno niente si conosce fuorché l’opera suprema che ha lasciato dietro di sé. Dal canto suo, Friedrick – stella polare di Holly e quasi ipostasi di una trascendenza senza la quale, ci avverte sottilmente il romanzo, non è pensabile la vita – rappresenta la summa dei valori che Holly cerca eroicamente di opporre alla decadenza, al disfacimento interiore ed esteriore di coloro che la circondano. E compiendo il balzo traumatico dalla casa al Fuori che ogni adolescenza comanda, Holly si trova a dover fare i conti con nuove rovine, con un mondo moralmente e fisicamente in frantumi, abitato non da uomini ma da ombre, spettri di sé stessi. Un mondo inaccettabile per il suo spirito puro, e desideroso di spezzare la catena di tutti i condizionamenti, per vedere nella loro essenza ultima la realtà e sé stessa. Per diventare, finalmente, sé stessa.
Commoventi e delicatissime le pagine di inizio libro in cui Andrea Leone ci trasporta nell’incontro tra la mente fresca e vergine di Holly e il romanzo senza ritorno di Friedrick – incontro, questo, in cui non faticheranno a riconoscersi coloro che, in un giorno della primissima giovinezza, sono stati a loro volta fulminati e rigenerati dalla lettura di una grande opera dello spirito.
Libro di demolizione, di malattia sanissima, atto d’amore per la purezza ascetica dell’adolescenza e al tempo stesso di fede verso una segreta integrità dell’individuo, Il suicidio di Holly Parker è tra i pochi romanzi italiani di questi anni che nulla concede né alle facili scorciatoie di certo minimalismo sciatto e attardato, da una parte, né all’imperante maniera cronachistica di troppi giornalisti impunemente prestati alle lettere, dall’altra. Al contrario, nella aperta vocazione massimalista, è romanzo che molto esige da se stesso e molto dal lettore, ripagando però del dispendio con l’incantesimo della vera letteratura: realizzare la grande concordia, quella che si ottiene quando una ben definita Weltanschauung , mettendosi al servizio del mondo interiore dell’autore, trasfigura e fissa quel mondo nella compattezza di uno stile univoco, rendendolo tangibile e riconoscibile al lettore.
E lo stile del romanzo deve certo molta della sua forza al fatto che Andrea Leone narratore vi ha trascinato dentro Andrea Leone poeta: ritroviamo qui lo stesso andamento percussivo de L’ordine, la stessa maniacale monodia di Hohenstaufen, il predominio della struttura paratattica su quella ipotattica, le lunghe e furiose invettive internamente sorrette da assonanze e anafore. Una prosa battente, insomma, dove il ritmo monodico gioca un ruolo decisivo e trova un corrispettivo nella struttura formale del romanzo, in cui si hanno continue giustapposizioni e sovrapposizioni di monologhi (un procedimento che ricorda quello di Thomas Bernhard, per esempio, in Verstörung, anche se più musicale in Leone). Così, come nelle famose scatole cinesi, scopriamo che dentro il monologo di Holly c’è quello di Friedrick, e dentro questo…
E proprio tale rimando ad altro, all’Altro, questo continuo sfondamento rivela la profondità d’intenti del romanzo, l’alta concezione dell’esistenza umana che sorregge l’opera: perché se la vita è intollerabile, diventa addirittura invivibile senza una grande idea che la conduca, senza un grande altrove che la seduca per sempre. Un grande, eccellente romanzo di una densità e di una forza uniche e irripetibili. Non esistono romanzi italiani paragonabili a questo, che appartiene in tutto e per tutto alla grande tradizione del malessere e della lucidità mitteleuropea.
Mauro Germani, La poesia e lo spirito
E’ un grido estremo, ultimo, un congedo, un addio cercato e definitivo, che Andrea Leone, poeta e scrittore autentico, ci consegna con un andamento intransigente, netto, assoluto, necessario, come quello di un classico. E a ben vedere, proprio dietro al dramma del personaggio Kleist, si può scorgere una dichiarazione di intenti da parte dell’autore in ambito letterario, cioè l’aspirazione ad una scrittura altrettanto assoluta, senza mediazioni e compromessi.
Questo libro, che si pone decisamente al di sopra della media di quanto oggi viene pubblicato, è davvero una prova di scrittura notevole, estenuante e ferma al tempo stesso, estrema e precisa nel disegno di un personaggio abbagliato dallo spirito e votato all’autodistruzione per trovare la sua immortalità, per non soccombere alla volgarità che domina il mondo. Kleist s’impone con tutta la sua forza come una figura destinata a restare nella sua tragica necessità.
Lorenzo Chiuchiù, Poetarum Silva
«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia», scrive Camus. Lo stesso quesito decide anche della letteratura: se in gioco non c’è la vita, allora non è che decorazione e chiacchiera. Il fenomenale Il suicidio di Holly Parker di Andrea Leone (Ventizeronovanta editore, 2016) costruisce una sorta di tribunale che chiede l’impossibile: chiede ragioni alla vita.
Antonio Devicienti, Via Lepsius
Hohenstaufen di Andrea Leone (Forlimpopoli, L’Arcolaio, 2016) si struttura grazie a una tesa e sontuosa retorica che sostiene questo libro-poema dall’inizio alla fine, conferendogli un andamento peculiare capace di farlo distinguere nettamente rispetto alle scritture poetiche attuali – e intendo il termine ῥητορική proprio quale arte (τέχνη) dell’imbastire e strutturare il discorso, del saper conferirgli efficacia espressiva e persuasiva (non nel senso, quindi, attribuito al termine “retorica” da Carlo Michelstaedter e della sua distinzione tra persuasione e rettorica); inoltre scorgo nel presente libro una continuità forte con un’opera precedente di Andrea Leone e che avevo molto amato e molto ammirato, con quel Kleist (Milano, 20090, 2014) che, a sua volta, aveva saputo costruirsi in un unico, compatto, spericolato (per impianto e sua realizzazione) discorso dell’io privo di cadute e di cedimenti, ma sempre teso e capace di squadernare davanti alla mente del lettore un intero universo materiato esclusivamente e solo sorretto della forza inesausta del linguaggio. Lo stesso accade in Hohenstaufen, non più in prosa, ma, per lo più, in versi, in un monologo, articolato in 20 parti (delle quali 3 in quella che potremmo chiamare “prosa ritmica”) che mette in scena anche stavolta un io che ha nel linguaggio, nella sua sintassi e nella sua articolazione sonora forse l’unico mezzo serio ed efficace per dire e per dirsi, come se proprio il linguaggio fosse, per l’autore milanese, dopo e oltre e malgrado le avanguardie, il mezzo e il luogo fondante della conoscenza. Si tratta di una conoscenza che, però, va affermata ed espressa proprio per forza di retorica (d’arte del dire), cosicché l’io che in queste pagine manifesta sé stesso (il Barbarossa? Federico II? – anche se non importa più di tanto, volendo suggerire, credo, il titolo tramite il nome del casato svevo un’atmosfera che, molto appropriatamente, Lorenzo Chiuchiù nella sua perfetta Prefazione chiama “araldica poetica” ed “emblema”) l’io, scrivevo, dice un’autoaffermazione che non è titanica (sulla scia dello Sturm und Drang, per esempio, anche se certi afflati del movimento sono riconoscibili in alcuni passaggi – ne parlerò in luogo opportuno), né nietzscheana (non vuole fondare un’epoca nuova), ma, appunto, retorica, cioè totalmente affidata al saper dire, e, modernamente, non per convincere, bensì situata nel linguaggio quale unico canale di comunicazione tra io e mondo (e di rappresentazione dell’io e del mondo), non per cogliere ed esprimere messaggi più o meno latenti, sì invece per reclamare la propria esistenza rispetto ai fatti e alle cose. L’estrema labilità dell’esistere e addirittura l’in-consistenza di quest’ultimo, se non ci fosse il linguaggio per dirla e proclamarla, è, in apparente paradosso e a mio modo di vedere, il vero tema del libro: il Da-sein, esposto al nulla e in esso gettato, possiede il linguaggio per costruirsi e compiersi.
Questa di Andrea Leone non è scrittura che vada commentata o illustrata, ma essa va letta e ne vanno apprezzati quei grappoli di allitterazioni e/o di omoioteleuti, di anastrofi e d’inaspettati accostamenti verbali che intessono il testo, ci si deve rendere complici dell’autore che cerca e visibilmente ama e accumula quegli effetti che soltanto il ricorso a una lingua non quotidiana e non omologata può creare, che solo il gusto irrinunciabile e anche aristocratico per le figure di suono può inventare e rendere stupefacenti (sospetto che ci sia una lunga frequentazione della poesia di Stefan George dietro questo modo di scrivere e certamente, sì, ovvio, anche lo studio amorevole dello stile kleistiano e più di una suggestione da Gottfried Benn per quella capacità di contrapporre la sontuosità e la nobiltà della lingua e del pensiero al nulla, ma, pure, la memoria di certi soliloqui del Tristan wagneriano). La forza percussiva della lingua e in particolare di quella serie inesauribile di prime persone singolari, l’impiego transitivo di verbi normalmente intransitivi, le reiterazioni, il procedere per ondate successive e per un moto di spirale che, apparentemente ritornando su sé stesso, in realtà spinge il dire sempre un po’ più in là, tutto questo rende i testi di Hohenstaufen una liturgia dietro la quale, però, evidente e lancinante il dolore dell’esistere emerge, abolendo ogni pericolo di manierismo postmoderno e di giuoco linguistico fine a sé stesso o di sé stesso compiaciuto – osserverei, per esempio, che il “mattatoio” (ricorre più volte questo vocabolo nel libro) e il “manicomio” evocano in me i testi che un autore non certo omologato e non certo “docile” compose per il fraterno amico il fotografo Mario Giacomelli, vale a dire Francesco Permunian, uno di quei rari scrittori in questi anni capaci e desiderosi di opporsi alle mode dominanti nelle varie “scuole” locali e localistiche che soffocano la scrittura in Italia.
Hohenstaufen è, allora, anche, alla lettera, la messa in scena che l’io compie di sé stesso, ma, si coglie in molti passaggi dell’opera, qui viene rappresentato pure il farsi della scrittura, il proprio emergere alla luce, imbastirsi e affermarsi, il suo “andare in scena” appunto, sempre avendo coscienza dell’esserci, sullo sfondo, il caotico, l’indistinto e l’informe, e anche in questo come raccogliendo il magistero di altri autori tedeschi (Hölderlin, per esempio). Il Dichterwerk viene a esistenza solo se è capace di dire di sé, del suo proprio di-venire e accadere.
Il provenire dal passato per poter esistere nel presente e, nel contempo, l’essere nel presente per poter creare il passato, il possedere capacità creatrici, ma, contemporaneamente, avere la necessità d’essere creato, non risultano essere contraddizioni, ma, nel discorso di Andrea Leone, una matematica dialettica sottesa e necessaria alla complessità estrema d’essere io e, anche, opera d’arte nel suo farsi e nel suo compiersi.
Carmelo Bene (quello stesso che recita il lunghissimo monologo di Manfred) avrebbe amato questo libro di Andrea Leone, ché vi avrebbe riconosciuto la sua stessa dedizione alla parola quale architettura sublime di suono e di sintassi, di slancio mentale e di sfida al volgare, al banale, al brutale. Qui non c’è l’io o l’opera d’arte in preda a deliri d’onnipotenza, ma c’è, al contrario, l’io e/o l’opera d’arte febbrilmente vitali, giovani di slancio e antichi della sapienza che viene dal possedere natura umana e abitare il linguaggio.
Mauro Germani, Margo, Recensione a Lezioni di crudeltà
Poesia fondativa, alta, quella di Andrea Leone, contrassegnata da una parola che si staglia incontaminata nel suo essere. Poesia non di una voce, ma della voce. Poesia che nomina e nominando genera ciò che resterà, la perfezione, l’immortalità luttuosa ma anche luminosa del nostro destino.
Nei versi di Leone c’è l’apertura ad un oltre che già da sempre è qui, una lucida e spietata obbedienza ad una legge superiore, ad una forza che travolge e supera ogni dato biografico, ogni sorta di minimalismo. C’è la scoperta di un segreto da far proprio, la necessità di partire, di dire addio per poter poi ritornare altri, diversi, come atleti dopo una gara. C’è una volontà epica, un respiro ed una bellezza da ritrovare, un coraggio da manifestare, perché non ci si può sottrarre al comando segreto e crudele di questa parola inaudita, di questa vita inaudita. Bisogna osare, rispondere alla parola che chiama, guardare in faccia la sua ferocia, la sua ineluttabilità. E non ci si può sottrarre allo spavento (“Divento lo spartito dello spavento:/lo spartito spietato dello spavento), ma proprio quest’ultimo si rivela indispensabile, la scossa necessaria per un nuovo entusiasmo, per quella rivelazione che si annuncia a partire dalla coscienza “imperiale della fine”. Nell’epoca dell’inappartenenza e del disastro, occorre accettare il sacrificio, l’abbandono dell’effimero, scoprire le geometrie perdute, “la verità che non ha vergogna”. Se tutto è già avvenuto, occorre riconoscerlo, ascoltare e registrare quel monologo assoluto che ci parla come fosse per noi l’ultima possibile lezione, l’apertura di un sipario su una scena che “è l’esattezza di una bellezza/che non termina”.
Ecco allora il compito quanto mai necessario dei versi inattuali, sorprendenti e fortemente ritmati di Leone, in cui l’io che parla non è più, non potrà più essere l’io del poeta, ma la lezione limpida ed inequivocabile che travalica la nostra precaria identità, la lezione rigorosa ed assoluta della poesia, il suo dire intransigente, che è simile a quello degli Dei: “Io sono il delirio dei nomi estremi./Io sono le insegne del tempo che fu straniero./Io sono la feroce/festa che si dissolve”. Come afferma Michelangelo Zizzi nella prefazione al volume “quell’io moltiplicato, fuorché essere compulsione egopatica, è limpidezza d’ambire ad una migliore aristocrazia de sentire – vedere ogni cosa”.
Andrea Leone sa che scrivere significa apprendere questo insegnamento, senza più fuga alcuna, per essere finalmente lì, nell’ “estrema battaglia del battesimo”.
Tommaso Labranca, nota introduttiva a Il suicidio di Holly Parker
Improvvisamente, a metà del secolo, sulla scena della letteratura mondiale irrompe Malattia e Tempo, possente e complesso romanzo scritto da un adolescente, Wilhelm Friedrick, morto a soli vent’anni. L’opera di Friedrick diventa oggetto di studi infiniti. Un gorgo che attira e sconvolge menti soggiogate da quell’enorme mole di pagine che «agisce su di loro come un pugno». Tra queste c’è una ragazza inglese, Holly Parker, che intorno a sé vede soltanto «manichini della morte, oggetti dell’idiozia, mummie della follia, bambini deformi dalla volontà di morte». Holly, vittima della fascinazione di Friedrick, fugge dal suo incubo adolescenziale per raggiungere Wilhelm e precipitare in un nuovo incubo intellettuale. Andrea Leone ha saputo creare un labirinto in cui si danno appuntamento personaggi disturbanti e indimenticabili, assassini, incestuosi, individui folli reclusi nell’oscurità da individui altrettanto folli. Se per il lettore è già impossibile cacciare dalla testa le storie di comprimari che Leone tratteggia in una manciata di righe, le menti alineari dei protagonisti, Holly Parker e Wilhelm Friedrick, torneranno a mettere in dubbio le basi sulle quali molti costruiscono la propria visione del mondo.
Tommaso Labranca, nota introduttiva a Kleist
Non basta leggere queste pagine con gli occhi. Bisogna affinare tutte le sensibilità, anche quelle più rarefatte, per rendersi conto che questo è un romanzo tridimensionale. Dietro il racconto febbrile con cui Kleist si congeda dagli uomini, si formano intorno a noi gli spazi austeri e in penombra di un palazzo neoclassico tedesco, si percepisce l’odore della polvere da sparo mescolata al profumo dei fiori serotini, si ascolta un violinista impegnato a ripetere un difficile passaggio di una sonata.
Manifesto filosofico o gioco dell’immaginazione che trasfigura eventi reali. Flusso di parole cui abbandonarsi o percorso in cui ogni vocabolo nasconde un altro significato. Il monologo di Kleist resta una potente dichiarazione di libertà umana.
Lorenzo Chiuchiù, La poesia e lo spirito
«Ci sono soltanto due trascendenze verbali: i teoremi matematici e la parola come arte» (Gottfried Benn, Futuro e presente). L'ordine di Andrea Leone muove da queste due trascendenze per costringerle ad una collisione violenta. Trascendenza del teorema che esibisce il tragico come insuperabile tratto destinale, trascendenza della prosa come arte che brucia il finito nell'astrazione più inflessibile. Sono queste forme di un giudizio inappellabile che investe l'esistenza, illuminandola di una luce livida e insieme aurorale. Giudizio di chi? Non di un io. Andrea Leone è un lirico, ma è forse necessario tentare di definire in che senso lo si afferma. In Andrea Leone il lirismo non è infatti assimilabile alla tradizione che ne ha definito il concetto. I versi de L'ordine non credono al soggetto, al singolo, alla storia.
«L'ordine è un libro del nord», scrive Milo De Angelis. Accade che il nord impassibile, simile ad una coordinata astrale, di colpo precipiti nella biografia: iniziano così le guerre di cui parla Rimbaud: «Il combattimento spirituale è brutale come la battaglia d'uomini (Una stagione all'inferno). Il combattimento spirituale, quello che esige tutto dalla parola («ciò che noi vogliamo è tutto» sentenzia Hölderlin ne il Frammento di Iperione), decide del destino del poeta. Nessuna salvezza personale se non è affidata al verso, al suo rischio gratuito: sono solo i versi a giudicare il poeta, a condannarlo o a graziarlo. Andrea Leone guarda alla tradizione che ridefinisce il senso del lirico: si pensi alle epifanie di Hölderlin che precipitano nell'impronunciabile che proprio in quanto tale deve essere pronunciato, alle stelle struggenti di Trakl che intercettano lo sguardo del poeta, costringendolo al rischio della morte o della follia; si pensi infine all'estinzione come referto autografo in Benn. «Voglio affilare al secolo il referto di un inferno», scrive Andrea Leone. E ancora: «È un ordine: impara / a distruggere. / È un ordine: impara nell'ora morta l'ora spietata, impara / la Grecia e la Germania». Il poeta deve «dissezionare la luce» perché questa violenza restituisca alla pagina la vita che «fugge via, bellissima», perché «tutte le mattine/ tutti i cori e i calendari» ritornino pronunciabili: «Ritorna,/ quieta, uguale / stagione giovane delle fortune».
La lirica di Leone sembra farsi carico di un'antica sapienza: «Molte sono le cose terribili, scrive Sofocle, ma la più terribile è l'uomo» (Ant., v. 322). Ecco il deinon, il “terribile” di Sofocle, o seguendo due differenti traduzioni di Hölderlin, ecco l'«immane» e la «violenza». Terribile la voce che esige l'irripetibile, che evoca destini per farli a brani, che misura le ere con il cronometro. La sospensione del tempo, l'atemporalità lunare di alcuni versi de L'ordine rivela uno spasmo del continuum: «Un intero anno non accadde», segue un puntuale, monadico, excessus mentis: «Esattezza. Violenza. Meta. Frana. Fortuna. Vittima. Ultima anima. Insalvabili mattatoi matematici. Istanti degli efferati collassi e calcoli. Formule del termine». La vita, racchiusa «nel segreto empio del tempo», emette la sua sentenza: «Eterno è ciò che si è perso». Non restano che «sostantivi monolitici e precisi» (Milo De Angelis), pietre che nel deserto erigono torri silenziose e ingiunzioni. Nessuna consolazione dalla vita che pure è apparsa indubitabile nella sua forza costrittiva. La trascendenza cui fa riferimento Benn riprecipita sempre nel mondo sublunare, non ascende all'iperuranio; e non è per intrinseca debolezza ma perché la vita è quell'apeiron che, come insegna Giovanni Semerano, lungi dall'essere «l'infinito», o peggio «l'indistinto», è la verità innumerevole e a tratti ustoria della polvere.
In questo senso non esiste in Leone la dimensione onirica: non esiste la trasgressione che elude, la fuga nell'innocuo indeterminato cui segue un risveglio con un rimpianto o un sospiro di sollievo.
Qualcuno scrive: «Eseguo, geometrico e violento, il segreto»: solo nel segreto di un remoto, «eterno teatro», solo dall'ossessione di una veglia lucidissima può risuonare un «grido di grazia». Grazia per la polvere, per la vita.
Giampiero Marano, "L'indice"
Esistono strutture normative grette, omologanti, create artificialmente per offrire alibi e riparo a chi arretra di fronte al rischio dell’impresa, a quanti hanno scelto di essere indulgenti: contro queste finte armonie prestabilite è legittima e inevitabile la ribellione.
Ma esiste anche un Assetto più alto, sia pure nascosto o dimenticato: qualcosa di molto vicino alla necessità dei cicli cosmici e all’infallibilità della legge naturale, qualcosa alla cui presenza sarebbe meschino e servile, questa volta, il non conformarsi, il rifiuto della sottomissione. E’ di tal genere l’ordine chiamato in causa dalle parole di Andrea Leone, a volte così simili a un’evocazione, a una preghiera tesa e potente: "Tu sei la luce inflessibile / che dice, nelle mattine definitive. / Tu sei la lezione dell’ordine (…)". Nel riferimento alla perentorietà della luce e dell’ordine si rinnova l’esperienza conoscitiva peculiare della grande poesia greca e romana, quella della circolarità del tempo: "Torna il Ventun Dicembre, / torna la carezza della terra, / torna la salita tra le guglie del Duomo, / torna la carta geografica, la stanza entusiasta / di una nascita". L’ordine dunque non è soltanto un "libro del nord", come sostiene Milo De Angelis nell’autorevole presentazione, ma anche la stupenda testimonianza di una mediterraneità ctonia, lunare, che, calandosi spietatamente nella quotidianità metropolitana, diventa il "materiale, insaziabile, adulto / ade delle strade". Infine, la certezza della punizione che raggiungerà l’individuo (colpevole di essere nato, cioè di avere abbandonato l’unità originaria dell’essere) è già scritta in quel tragico gioco del sorgere e del tramontare delle cose riflesso in uno dei versi più folgoranti dell’intera raccolta: "Ti accade di essere il mondo: ti accade di scomparire".
Stelvio Di Spigno su Lezioni di crudeltà
Una poesia verticale e divinatoria come quella di Andrea Leone prefata da un grande poeta come Michelangelo Zizzi costituiscono un evento rarissimo nella babele della nostra letteratura.
Elio Grasso, recensione a Scena della violenza
Leone, in Scena della violenza, scritto tra i diciassette e i diciotto anni, consente e una "parete delle parole" di manifestare la propria serietà, di arrivare là dove noi siamo giunti dopo. Se ancora ci mancavano alcuni frammenti per tentare di capire il nostro presente, per affondare una mano nel mulinello senza venirne catturati, ora questa libro ci aiuta. E' in una fermezza del passo, di scoperta e impiego della lentezza, che queste pagine si sollevano dal clamore generale, dalla luci troppo vivide e dall'oscurità più incalzante. E incontro alla solitudine, una stagione che sembrava scomparsa dalla memoria: "il passato cancella il futuro", come gli enigmi raccolti in un sola punto della spazio la annientassero in un attimo: cosa rimane di determinante nei pressi della coscienza, oltre a una poesia che attui la sua vera vita, e si sovrapponga alle vita che ci fa respirare. Sembra che in uno spavento lasciato passare con grande dignità si conformino gran parte delle regole che Leone realizza, come sguardi ìnstancabili, all'interno delle siue poesie. I dolori ci sono già prima, ma quanto s'era allontanato si riavvicina speditamente, in modo che si possano ascoltare le esili voci condannate. Così il libro continua parlarci dopo che lo si è chiusa e riposto. Dopo qualche esitazione molteplici dubbi iniziano a ronzarci intorno, e non è facile capire che noi stessi siamo il problema. Perché questa poesia, la sappiamo, parla di noi, di noi dentro gli squarci del tempo nella debolezza delle dimore, nelle cadute, nella violenza.Non possiamo pensare d'essere immuni dai duri attacchi che l’esistenza ci pone di fronte. Il sangue si oscura, la mente si appanna (…ruvida lettura / disegnare il cammino brutale, / redimere sezioni della fortuna, / incontrare per sempre / queste contee del sangue...") proprio quando, incontrando una luce, scoprirle la deformità. Il paese che ci ospita, avverte Leone, non ha speranza, è fatto con le stesse piegature dolorose dei dipinti di Bacon. In questa scenario che difficilmente accetterà correzioni, quale vaccino ci salverà dai “relitti", dal "crepuscolo", dal "collasso"? Una poesia che certo non ammette la lontananza, l’abbandono a false correnti di salvezza, ammesso che esistano. Una fedeltà a se stessa, alla memoria del poeta che la fa, è quanto ci azzardiamo a chiedered d'ora in poi. Perché, nella consapevolezza, aiuti a resistere in ogni ora dei giorno, anche dovendo giungere parecchio lontano. Ce lo deve forse, la nostra terra, così come a lei dobbiamo la scoperta dell'origine della malattia. Leone è una voce giovane: il dato anagrafico conforta per il futuro della poesiam oggi lasciata al nostro sguardo da poche ma rigorose presenze. I suoi archivi si aprono molto bene in una zona che diremmo ridotta all'affanno. Una fedeltà lo porterà avanti.
Gianluca Chierici, Absoluteville
Tenendo tra le mani Il suicidio di Holly Parker, nel respiro di una lettura che non conosce pause, si sente tremare la terra del racconto, si sentono le radici della poesia sbranare il profondo d’una prosa tripla e potente. Dalla stanza, l’incubo lacera l’ellisse che porta alla mente. E’ implacabile il ponte, e una soglia si crea perfettamente invisibile, dall’ordine indiscusso dello spavento, tende la sua fine oltre i protocolli, oltre le scosse della crudeltà.La stessa forza, lo stesso schianto, nella poesia e nel romanzo. Una voce unica, ineccepibile. Il respiro di un incendio.
Antonio Devicienti su Kleist
Uno scrittore di livello europeo. Libri indimenticabili e straordinari, che segnano e cambiano il modo di immaginare la scrittura.Hohenstaufen e Kleist, due opere di rara forza nell'esangue universo letterario italiano, capaci di legare due culture e due lingue lontane e vicine nello stesso tempo, due mondi che si attraggono a vicenda, portando nella letteratura italiana quel difficile equilibrio, tipico della letteratura tedesca, tra luminosità e tenebra, tra follia e razionalità, tra empito verso le imprese più ardue e dolore della condizione umana.
Cristiano Poletti, Poetarum Silva
Venti poesie, un distillato. Una fermezza speciale nel testo, una forza che deriva, io credo, da un tremore a lungo appartenuto all’autore. Una poesia “grossa”, vasta, alta e solenne, quella di Hohenstaufen, larga, capiente: un dettato che possiede senz’altro molta grandezza, e molta vertigine. La scrittura di Leone ha in questo un fascino terribile, e invita continuamente, profondamente, all’analisi del testo, quasi richiamasse il lettore in un vortice analitico, piena di festa e di sacrificio com’è, capace come in pochi casi di una voce che non si risparmia: «Invado i documenti e i demoni, il metro e l’esito, il sepolcro e l’esordio». L’oggi del mondo si fissa nel presente delle epoche passate: lo spirito moderno (l’eco di Hölderlin); l’età medievale (gli Hohenstaufen appunto, i duchi di Svevia imperatori e re di Sicilia tra XII e XIII secolo); l’antichità soprattutto, la sua prospettiva che in noi continua a riformarsi, quella luce nella quale ci troviamo costantemente risospinti: «Non so chi tu sia,/ mia età nuovissima./ Non so quale Dea/ stia preparando la mia età antica». L’intendimento dell’autore è questo: legare anni, età, epoche, ere. Un’opera d’arte ci fa pensare, sempre. Ci sono immagini e termini in questo libro che sono categorie della mente, che “spietatamente”, vorrei direi, fanno da collante poematico: Dèi, teatri, matematica e musica (la musica, assolutamente, i suoni che emergono ad esempio in questo passaggio: «Sto per essere/ abbandonato al sacro/ massacro del calendario e del miracolo»). E poi nascite e dinastie, sentenze, mattatoi, mentre s’inscena di continuo la rincorsa tra esordio ed estinzione. Già, s’inscena: è una messa in scena infatti, quest’io. In teatro, sul palco, la pronuncia dell’io è l’unica via per poter rappresentare il mondo, sembra volerci dire Leone, l’unico sguardo che può mettere a fuoco il noi e il voi del mondo. Un io-linguaggio, la costruzione del linguaggio che è la casa dell’essere.
Alessandro Bellasio, La costruzione del verso
Con acuminata chiarezza, con verticalità intransigente e percussiva, Andrea Leone, metronomo inflessibile dello spavento e del disastro, con il recente Hohenstaufen avanza a grandi passi, e anzi in perentorio affondo, verso i territori estremi del suo dettato, fedele a un’idea assoluta di poesia che, fin dal libro d’esordio del 2006, L’ordine, persegue una parola bruciante, in piena detonazione, ma severamente controllata e spolpata di ogni concessione tanto biografica quanto elegiaca. Malgrado l’iperbole cui viene sottoposta la prima persona singolare (o forse in virtù di essa), in Hohenstaufen l’io è oggetto di un transfert che nulla concede all’immediatezza del vissuto, ma viene piuttosto condotto a viva forza nella dimensione dell’archetipo e dell’evento. L’io è cioè destituito di ogni sovranità per farsi sede medianica di un trapasso, soglia bruciata dall’attraversamento a cui è sottoposto a contatto con le potenze del linguaggio e dell’essere. Non si tratta di un io che dice, bensì di un io che è detto, quasi rimbaudianamente, da altro. Si tratta di un io, e dunque anche un bios, revocato, giustiziato: «l’assideramento senza momento | da cui discendo» e «esordisco esempio dell’estinzione […] divento il testamento, il tempo». Spezzati così i legami con ogni cronaca, il linguaggio, e con esso il poema, è risucchiato in una zona di tensione e allarme immanente al poema stesso e dove il senso, al di là della resa editoriale dell’oggetto-libro, più che allinearsi orizzontalmente in versi dà invece l’impressione di aggregarsi in torri e bastioni, di scolpire sul foglio il profilo granitico e guerriero di una colonna dorica, deputata a reggere il peso di divinità terribili, forse proprio quelle che aprono la raccolta e di cui è detto che «morirono | nella matematica della casa millenaria | e in tutti i mattatoi del mattino». I versi di Leone sono da sempre animati da una vis assertiva qui confermata e che hanno certe opere scritte in prossimità del giorno del giudizio. Così, con quell’entusiasmo congelato che da sempre lo contraddistingue e che funziona quasi come un dispositivo per l’accumulazione della tensione conoscitiva, Leone, mantenendosi in una zona limite tra esplosione e implosione, incide letteralmente i suoi versi su una carta pietrificata, accumulando e raffinando il materiale grezzo degli archetipi, che vengono impilati gli uni sugli altri secondo una logica di commistione e convergenza (quasi di infezione e di contagio) tra antico e contemporaneo, remoto e prossimo, in un vertiginoso avvicinamento delle epoche.
Gianpaolo Mastropasqua, La poesia e lo spirito
Immaginiamo un futuro remoto. Immaginiamo l’anfiteatro dell’isola di Delo o le perfezioni auliche di Epidauro delle feste panelleniche, immaginiamo un attore-creatore di smisurata grandezza, un Artaud, un Bene, un dio della Scena immerso nel paesaggio tragico che fu di Eschilo, immaginiamo che cominci a proferir parola, ad essere parola e delirio tra le pietre sperdute e incrollabili mentre tutto intorno brucia, divampa, invadendo ogni sfondo, ogni città umana per l’ultima recita del mondo.
Ed è il tempo che non lascia scampo, questo, un tempo infimo, misero, privo di grandezza, di altezza eroica, di gesta atletiche, un tempo che ammala con le malattie definitive della razza umana.
“Lezioni di crudeltà”, pubblicato per l’ammirevole editrice Poiesis, è la lezione del distacco alla ricerca di un tempo di esseri incorrotti, l’impresa estrema di Leone è “poesia e destino”, è superare il tempo odierno per rifondare, attraverso un crudele, necessario e marziale esercizio di progressiva perdita dell’effimero, per ritrovare il ritmo dove pulsa l’intreccio tra razionalità del divino e razionalità del corpo, il battito incessante della Bellezza, la cifra olimpica dell’inizio di un tempo che sia epopea altissima <>. Il presente non è che un trucco infantile, una commedia di spettri mediocri che nasconde la crudeltà altra, quella bestiale, meschina, una crudeltà senza precedenti che condanna e ammazza i suoi figli geniali impedendo loro di nascere, costringendoli a “partire” presto con il “giovanissimo Dio antico”.
Leone racconta il suo vivo “romanzo del disastro e dell’entusiasmo”, poiché si deve essere “maledettamente” crudeli per resistere allo sfacelo, per schernire questo mondo infante che non vuole crescere per raggiungere l’eterna adolescenza delle morti sublimi, l’adolescenza che si sottrae dall’essere una categoria evolutiva, cronologia, divenendo battito devastato dell’assoluto. La stirpe di Leone è la banda dei poeti adolescenti della bellezza vera (Drieu la Rochelle, Rimbaud, Cvetaeva, Fortini, Gatto, ecc…) coloro che hanno condannato per patto e per nascita ogni cortigianeria e ogni setta in un atto, in un gesto che è trascendenza nobilissima perché “la fusione di sforzo supremo e armonia riproduce nelle membra una vicenda cosmogonica, un caos che diventa ordine necessario delle cose”(M .De Angelis) per l’aderenza totale alla purezza. Leone vuole che il mondo sia dei valorosi e divenga ‘grande’, ma attenzione non è da intendere come adulto, difatti nel divenire adulti per l’autore risiede tutto il male del mondo (la corsa all’utile, i disillusori, i falsi miti, i traditori, le donnette ammiccanti, i venditori venduti, i ladri d’ogni razza, gli assassini della bellezza, i cortigiani del potere, i ragionieri in carriera letterata che si fingono liberi, i dissacratori, in una parola “gli storpi”, quei mediocri mascherati che fanno rivoltare nelle tombe eccelse i grandi poeti adolescenti, strumentalizzandoli per giungere al successo… da letterine) Soprattutto in tal senso Michelangelo Zizzi nella prefazione straordinaria (anche etimologicamente) afferma che i veri poeti sono antidemocratici, antidemocratici soprattutto rispetto a se stessi e definisce la poesia di Andrea Leone come atto “monologico e non dialogico, c’è la ‘pax iuxta’ dopo il confliggere di una lotta necessaria”, di un corpo a corpo con la parola che diviene ossessiva, esatta, ripetitiva, nel ripetersi inverso dei cicli e delle stagioni, del kairos di una fioritura estrema. Lezioni di crudeltà è un’entrata commovente nell’antico e nell’imperativo presente della meraviglia.
Ilaria Seclì, La dimora del tempo sospeso
Sopravvissuto al mondo, nato a sproposito, imperdonabile. Kleist.
Il Caucaso è il suo destino, votato all’irripetibile eppure costretto dall’appello della nascita a piegarsi, piagarsi, per forza di respiro, ai rituali mortiferi della macchina, alla monotona crocifissione direbbe Artaud, e per di più, su una croce di legno scadente. Il becco d’aquila in dotazione ai giorni, inflitto pane quotidiano, condanna.
Kleist, angelo purissimo tra ottusi funzionari della specie, è il protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Leone, pubblicato da “20090” nella nuova collana Miyagawa.
Kleist è angelo tra i malati mortali che infettano con la loro malattia inguaribile, col loro esercizio di mediocrità, stiletta ossessivo Leone. Lo stesso esercizio imposto dai padri, lo stesso che nutre irrimediabilmente e meccanicamente una servitù malata costretta a senili e patetici tentativi di esistenza, quella dei plebei funzionari della specie, quella dei soldati di stato, gli educatori che fagocitano le nostre vite, ci arruolano nel teatro della follia e della privazione di ogni libertà.
Luogo di martirio è il mondo. Questo mondo, stagnetto per omuncoli orfani di vita, stanca ripetizione e riproduzione imbecille di sì, di pseudovivi cittadini obitoriali deambulanti nel seriale accadimento del niente, nell’accidente che siamo, nella patetica debolezza e evanescenza di una vocina all’interno di altissimi abissali muri che istituzioni d’ogni sorta alzano per proteggerci dalla vita, per salvarci da essa, per farci soggiornare nella lunga vigilia e veglia che precede la morte, unico atto liberartorio, unico squarcio, svelamento.
Il martirio, per Kleist, è essere nati. L’essere costretti a un cognome, a un destino esteso quanto un acquario domestico, una rotatoria urbana, cani alla catena sperduti in stanzoni di caserme dai muri altissimi.
Il ricamo macabro di ciò che in questo mondo non corrisponde è cucito nel nome di battesimo, nei muri delle case e delle aule. Ciò che non corrisponde sono i maledetti e i puri, esseri rosicchiati dal mondo, consumati dalla distanza col mondo. Nessuno scaffale per merce simile, ovunque tu vada, in qualsiasi supermercato della terra, nessuna etichetta li identifica. L’inchiostro della loro esistenza serve solo a condannarli all’ordine alfabetico dei registri, delle carceri legalizzate, uffici dell’anagrafe, all’eredità genealogica e tirannica della cornice dentro cui dalla nascita veniamo depositati e deposti, argomento e traccia, argine, contenitore. Dati e fissati per sempre. Dadi.
Andrea Leone ci porta ancora nel grande freddo, nell’atroce astinenza, nei perimetri asfittici senza finestre né luce delle camere mortuarie della società, della famiglia, della fabbrica indottrinante, dell’imbecille e inetto capostipite. In questi recinti si muovono umani defunti a se stessi e alla vita, servi obbedientissimi, solerti obliteratori di tappe sociali, inseriscono e memorizzano egregiamente il PIN del loro sporco esercizio di potere. Scannatoio della vita. Remotissime connessioni umane.
Leone a ogni passo ricorda l’ignifero e feroce Artaud, tenerissima e crudele creatura immolata sull’altare marcio e misero del mondo: “Ondata dal fondo, che viene avanti con la sua orribile dentatura d’esseri, fatti per ingoiare tutti gli esseri, ma che non sanno mai dove sono”.
Come Artaud diffida di ogni porta da cui passare e nessuna gli appare sicura poiché sa che apre solo su prigioni: “Ah, se ogni camera fosse stata illuminata come al tempo in cui dai versanti delle montagne, aprendo davanti a me la porta dell’immensità, vedevo l’infinito senza serratura e senza chiave!”.
Andrea Leone continua la sua battaglia contro la legge di necessità. La sua silenziosa e nobile eleganza non glielo fa dire, ma la battaglia coinvolge tutti noi, eredi, ab origine, del cosmo, di ben altre ineffabili leggi e fulgidissimi destini. Diventati poi, per qualche decreto ministeriale, affittuari di matrioskine, feti in barattolini di formaldeide. Non è possibile rimediare, scrive, ma almeno è possibile vendicarsi. Leone diventa anche per noi un più tremendo gigante che si oppone al gigante. Vincere o perdere è un fatto del mondo, non lo riguarda.
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Luca Doninelli, "Il Giornale"
Come poeta è stato la rivelazione del 2006, ma da sempre bussa alla porta del romanzo. Si chiama Andrea Leone e probabilmente è un genio. Leggete il suo romanzo d’esordio, incontrollato, folle, in cui la materia travolge la forma, con tratti bui,lunghi h rettilinei cui si alternano accensioni letterarie, svolte improvvise di inaudita forza. S’intitola Il suicidio di Holly Parker. È la storia di una passione letteraria, di una vita inaccettabile da cui si sprigiona una volontà di suicidio che si dà senso identificandosi con l’opera letteraria di un altro suicida celebre.
Paolo Bianchi, "Libero"
Puntare alto, senza compromessi. C'è chi lo fa, nella narrativa. Parliamo di un libro come Kleist di Andrea Leone. Un libro che corre via come un flusso di coscienza; una prosa battente, iterativa, che si avvolge su se stessa in spirali vorticose. L’autore si cala nei panni, o meglio nella testa, di Heinrich von Kleist (1777-1811) il nobile tedesco autore fra l'altro del dramma Il principe di Homburg che qualche storico della letteratura annovera tra gli anticipatori del romanticismo.
Giuseppe Iannozzi
La condanna è una sola: vivere, essere, esistere, ma solo per replicare le azioni e i pensieri della massa. Andrea Leone, attraverso Kleist, monologo tanto dostoevskiano quanto camusiano, con qualche accenno a un esistenzialismo kierkegaardiano, è un miracolo, un accadimento speciale nella Letteratura italiana, un lavoro controcorrente che disegna alla perfezione lo sbandamento sociale dell’uomo contemporaneo, pressato da troppa inutile informazione e viàtici massificati.
Kleist è un romanzo, una pièce teatrale, una opera filosofica. E’ tutto questo, e forse di più.
Kleist, protagonista assoluto del romanzo, non ama la società, perché questa gli è stata cucita addosso facendolo prigioniero. Il solo modo, che ha per non allungare le fila dei Kleist, è quello di darci un taglio. Seppur sia evidente che Kleist è febbricitante, ciò non toglie una virgola alle verità che egli espone con una lucidità esistenzialista che non teme le scalfitture del tempo.
E’ una insperata fortuna incontrare scrittori da combattimento come Andrea Leone, un autore forte di una cultura e d’una verve difficilmente riscontrabile tra i seppur tanti colleghi delle patrie lettere. Kleist rappresenta una lettura, a mio avviso obbligata, perché Andrea Leone non si limita a raccontare: nel suo romanzo, sotto forma di monologo, espone una miriade di concetti filosofici, ma soprattutto storicizza l’uomo contemporaneo, scattandogli una fotografia che lo inquadra sotto ogni punto di vista possibile. Il peccato, oltraggioso e non perdonabile, è uno e uno solo: non leggere Kleist, perché il lavoro di Andrea Leone è una dichiarazione di libertà e di emancipazione dalle ataviche soggezioni. Kleist è un moderno Spartaco che combatte l’ipocrisia della società, le tante imposture del pensiero globalizzato.
Manlio Benigni di "Rolling Stone"
Libro incredibile, enorme, splendido. Capolavoro. Miracolo. Un Unicum dal respiro transnazionale. "Kleist" è un'esperienza unica e sconvolgente. Il mio libro preferito del 2014. Tutto il resto è carta stampata.
Manlio Benigni
Dopo "Kleist", temerario e visionario flusso di coscienza dentro la testa del grande scrittore tedesco colto nelle sue ultime ore di vita, ecco "Hohenstaufen", un altro capolavoro di un poeta vero e sommo, unico e altissimo ,uno dei pochi, rarissimi esempi di voce lirica limpida e già classica.
Un poema, con sprazzi di prosa, in 20 movimenti di romanticismo colossale e lirismo eroico. Un viaggio a ritroso verso le radici della storia europea e le fonti dell'ispirazione poetica. Andrea non teme di avventurarsi nella landa scivolosa del sublime e ne riemerge trionfante da vero Leone.
Giampiero Marano, "Critica italiana"
L’esistenza di un legame fra la violenza e la gestazione, fra la catastrofe e la nascita, è cosa nota (ma forse non abbastanza meditata): quattro miliardi di anni fa, a quanto pare, fu proprio una terrificante pioggia di comete a portare sulla Terra le prime molecole di carbonio e quindi la vita. Alle leggi della biochimica non sfuggirebbe neppure la letteratura: “Il suo // è passo di cometa: brucia e non scalda, / cuoce e non matura”, scriveva Marina Cvetaeva in una lirica memorabile, "Il poeta". A volte anche l’energia creativa della parola può rivelarsi una forza demoniaca, portatrice di una carica ostile e minacciosa che giunge da lontano, come suggeriva la stessa Cvetaeva.
Troviamo certamente questa idea di letteratura all’origine dello stupendo romanzo "Kleist" di Andrea Leone (ed. 20090, 2014, 108 pp., 8 euro). Il protagonista, il grande poeta e drammaturgo morto suicida nel 1811 poco più che trentenne, è qui presentato nella veste di ufficiale dell'esercito prussiano, nel quale prestò servizio giovanissimo. Al cospetto di due commilitoni che lo ascoltano sbalorditi e in totale silenzio, Kleist si profonde in un lungo monologo, nello stesso tempo lucidissimo e delirante, accompagnato da gesti ossessivi, sguardi persi nel vuoto, scatti epilettici.
Kleist vede la nascita come una dannazione, uno “shock incomprensibile” che determina la caduta in quel “precipizio allarmante e inesorabile che è il mondo fisico”, da lui anche definito “un gigantesco penitenziario”.
La condanna coinvolge inevitabilmente la società e le sue istituzioni, considerate alla stregua di manicomi o carceri che educano al terrore dell’autorità e all’obbedienza più cieca. All’ombra dello Stato etico il suicidio diventa allora un gesto vitale, mosso com’è dal rifiuto della vera morte, essenza della natura e della civiltà.
Il pensiero che con la forza della parola sia possibile creare o distruggere mondi e vite può apparire un superstizione romantica, un curioso residuo del passato.
Ma per Leone, molto attirato dall’esplorazione del lato oscuro e sinistro della letteratura, esso corrisponde a un dato di fatto, a un’esperienza concreta: quella della salute o, meglio, di un mortale eccesso di salute. Come nella "Pentesilea" esclama il personaggio di Protea, commentando il suicidio della regina delle Amazzoni: “E’ caduta, perché fioriva troppo fiera e vigorosa!”
Michelangelo Zizzi, prefazione a Lezioni di crudeltà
Scrivere una prefazione ad Andrea Leone è come andare a vedere uno spettacolo nell’anfiteatro Flavio dopo aver inalato in una sola inalazione tutto il tabacco incatramato di una camel senza filtro, il giorno dopo quello in cui Cesare stravasò con arti divinatorie il Rubicone.
Da lente contrade meridionali dove la resistenza ai bivacchi cartesiani delle metropoli è, per chi scrive, una sosta tra alcoli ingurgitati in un fiato e agone inattuale di gioco di carte di vecchi seduti ai tavoli, l’opera di Andrea Leone vi entra come il pistolero nel far west, il temporale estivo, la rete all’ultimo minuto di una finale mondiale.
‘Lezioni di crudeltà’ ricorda che la poesia esige un’epica, uno stato di travaso dalla solita sonnolente plaga in cui s’affossa con la zappa delle avanguardie e dello sperimentalismo per tutto il ‘vecchio’ Novecento.
Così del mondo (moderno) del quale, secondo il tempo verbale dell’imperativo di Leone e non il tempo al presente, è possibile il solo catalogo del collasso, l’auspicio (proprio nel senso forse involontario di un aruspicino) è riconoscere la bellezza fuori dal canone d’ogni algoritmo: la bellezza come numero / che nessuno ha mai calcolato; / uno spavento perfetto, / cresciuto nel crepuscolo dei corpi, / e tutte le feste delle scomparse / e del presente che foste.
Questa controlezione sul ‘modo’ del moderno, questo spostamento verso il centro incalcolabile dell’essere stato al mondo (già al passato), questo riconoscimento della metà di caso (il non essere leggibili, neanche all’interno della più deflagrante metafora della poesia data in endecasillabi: Ragazza che la perfezione ammala) e della metà di necessità – fatum rappresenta il modo più franco di ‘vedere’, nel senso della visione, di ‘sentire’ nel senso di un meditazione cardiaca la poesia oltre il cronotropo della relazione di un ‘qui ed ora’.
Il presente imperativo della poesia di Leone è il futuro imminente del ritorno d’epica (Ora perché si compia / ciò che fu promesso un tempo), la sua misura è la grandezza incalcolabile ma nitida (Noi sentimmo dunque / il nostro intero viaggio terreno / nell’abbraccio di un giovane / cielo di esattezze estreme; Bellissimo è soltanto / ciò che è incomprensibile. / La pelle delle perfette / primavere ci insegnò / il dovere di morire. / Il volto nuovo ci colpì / un giorno d’aprile / all’inizio della dimora), il suo ritmo sia la perfezione all’interno del corpo, che l’aritmia e l’entropia nella relazione col corpo del mondo esterno.
Nella poesia di Leone, come nella migliore tradizione italiana, c’è la ‘pax iuxta’ dopo il confliggere di una lotta necessaria. Ed è per questo che l’autore, per potenza stilistica ed orientamento del ‘modo’ a nostro parere tra i migliori della storia della poesia degli ultimi decenni, deve essere considerato ‘classico’.
Non il classicismo di un Quasimodo, modulato secondo le note silvestri della canna di Pan virgiliana, né quello della limpida moderazione d’immagine di un Penna; ma quello marziale, fondativo e iniziatico (involontariamente nel caso di Leone) di un Orazio delle odi, degli sitlnovisti, di un Nietzsche e persino, seppur senza coniugazioni lessicografiche, di un D’annunzio, senza dimenticare alcune sequenze sintagmatiche degne del miglior Campana.
Va da sé che l’epos di Leone non è il colpo di dadi dato al tavolo – teatro del post-moderno per eccesso di citazione: in quel tavolo dove i commensali satolli dal lusso delle correnti socialdemocratiche e liberaldemocratiche hanno appena finito di sorseggiare l’amaro.
Vogliamo dire che l’epos di ‘Lezioni di crudeltà’ nulla a che vedere con la necessità sociologica di rivedere le categorie della letteratura : come hanno fatto, ad esempio, qualche anno fa i Wu Ming, che sono un gruppo di borghesucci bolognesi animati dall’infaticabile regia della semiosi echiana, quando hanno riproposto una letteratura d’epica.In ‘Lezioni di crudeltà’ non vi è infatti macchina semiotica; e non vi è perché il poeta è la poesia e non fa la poesia; del resto semiotizzare il mondo è il risultato di un distacco avvenuto con esso; del resto la semiosi nasce dal sistema di democratizzazione dei segni: ed invece i veri poeti sono antidemocraticci, antidemocratici soprattutto rispetto a s stessi.
L’epos di Leone è il risultato del distacco, dell’assenza, dell’estraneità ad un cronotropo. E se pure vi sussiste, il che è vero, un certo compiacimento autodeterminato in questo distacco, nondimeno può negarsi che esso non ha nulla di emulativo, bensì di veritativo ed autentico.
Se Leone assomiglia, oltreché alla tradizione italica migliore, a certa poesia mitteleuropea, per esempio nell’aspetto dell’algida celebrazione di un lutto non del tutto spiegabile, vi assomiglia per concordanza interna e non per postura attoriale.
Poiché quello che questa poesia inattuale e discesa dalla bocca delle idee (eidòs) o degli Dei ha un pieno di imminenza tragica (Feste della fine, / miracolo morente calcolo / gli errori, gli annali / dei troppi nomi corrotti) e ineluttabile ed un vuoto di semiosi.
Solo nell’azione e nella prassi (nell’evento dunque e nell’attenderlo dunque) c’è abolizione della semiosi, la quale vogliamo ricordarlo, esiste solo nella relazione tra sé ed un altro.
Ecco l’ulteriore elemento di distacco dal fare poetico dell’officina novecentesca e postmoderna: la poesia di Leone è conchiusa in sé, non è dialogica, ma monologica: come la parola degli Dei essa detta e agisce, ovvero registra e ‘vede’ ciò che è avvenuto. Tale dinamica sottrae la stessa poesia al destino di reperto e di autoconsumazione.
Nel punto focale in cui Leone appare pervaso dalla possibilità di essere nella macchina attoriale, è smentito dalla stessa poesia che è in questo autore una necessità e non un’opzione. I frequentissimi lemmi ‘malattia’ e ‘crudeltà’ e le loro forme derivate, agiscono in quest’opera come la cartina al tornasole che svela verità e non come pulsione neurologica e biografica alla messa in scena della morte e del lutto.
Anzi, per smentire ogni ossessione moderna alla biografia, alla ‘propria’ biografia, diremo che questa poesia è tutt’altro che biografica persino laddove compare in anafora il termine ‘io’: io sono il delirio dei nomi estremi. / Io sono le insegne del tempo / che fu straniero. / Io sono la feroce / festa che si dissolve.
Quell’io moltiplicato, fuorché essere compulsione egopatica, è limpidezza d’ambire ad una migliore aristocrazia del sentire – vedere ogni cosa.
La poesia di Leone è originale perché ontica, imperativa e senza scampo, perché essenziale.
L’urgenza dell’essenziale non ammette slittamento, né modo, perché la forma riposa in sé e non in un’altra forma.
Sontuosa è l’opera di Leone per questo ‘non eliminabile’, questo non addizionabile né sottraibile che sta nell’essenziale; a differenza della biografia che è solo uno dei modi per raccontare una vita specifica e quindi qualcosa che può slittare, diminuirsi o aggiungersi proprio perché ‘spostata’ sempre, per ogni volta.
‘Lezioni di crudeltà’ ha il suo oggetto non oscillante non vicariante che è la poesia stessa, non riferita più ad altro: la vita in sé: Dèi perfetti di una nascita / una sola volta amata!
Poesia immensa, che i poeti minori (ma tutti i poeti, tranne 12, sono minori) di quest'Italietta, dovrebbero leggere, anzi mandare a memoria. Per ricordarsi di non scrivere, non scrivere altro e mai più.
Milo De Angelis, prefazione a L'Ordine
L'Ordine è un libro del Nord. Nord della terra e del pensiero, dei paesaggi e dei maestri. Sembra uscito da un film di Carl Theodor Dreyer, con il suo bianco e nero teso e allarmante, minacciato dal giorno del giudizio.Con il suo stile da ultimatum, con i suoi sostantivi monolitici e precisi, Andrea Leone ci conduce nelle stagioni trascorse e le intreccia a questo finale di partita. Finale vivissimo, scritto a lettere di sangue. Scagliandolo addosso a tutti noi con la forza di un epilettico, ci consegna il suo verbale e la sua invocazione.
Carmelo Caudio Pistillo
Andrea Leone è una voce originalissima e unica della letteratura. Ha uno stile sontuoso, ricco, magnificente. E' la lingua del male che ti afferra e ti seduce, per poi resituirti purificato e libero.
Alessandro Bellasio, La poesia e lo spirito
Un’adolescenza bruciata e bruciante, contrassegnata da un disagio sanguinoso e da una sete assoluta di conoscenza, dalla volontà ferrea di far proprie le vette siderali della mente e dello spirito; tutto intorno, il nulla, il deserto “che cresce”, la desolazione feroce di una immaginaria ma materialissima metropoli. È questo il mondo in cui Andrea Leone traccia la parabola di Holly Parker, figura singolarissima e senza parentele immediate nel panorama delle lettere nostrane, protagonista di un romanzo compulsivo, ossessivo, barocco, ma al tempo stesso sorretto da una geometria rigorosissima e da un disegno potente: restituire fin nei minimi dettagli, fino alla paranoia analitica e al parossismo sintattico, il viaggio, iniziatico e assoluto, di un’adolescente sensibilissima e intelligentissima attraverso i meandri più oscuri e disastrati dell’esistenza umana. Affrontando, in maniera lirica ed efferata, quello che Holly stessa comprende infine essere «l’unica nostra reale natura: l’intollerabile».
Ecco, tutto il romanzo – abitato da quella stessa perentorietà percussiva a cui ci ha abituati Andrea Leone poeta – è chiuso e concluso intorno a un’unica idea dominante, è captato da un magnete segreto che impedisce al lettore, malgrado il crescente malessere da cui si sente invaso, di interrompere la lettura. Si è quasi obbligati a continuare, come Holly, trascinati nell’allucinazione e nel disastro da una specie di forza centripeta, che risucchia nelle pieghe morbose, nelle spire splendidamente ossessive di questo romanzo torrenziale e luciferino, travolti dal suo pathos non meno che dalla tremenda consequenzialità della vicenda. Vicenda quanto mai semplice, archetipica: Holly Parker, studentessa adolescente «dedita giorno e notte alla letteratura» e agli aspri territori dello spirito, si imbatte un giorno nel capolavoro postumo di Wilhelm Friedrick, genio precoce delle lettere europee, prematuramente scomparso. Il libro in questione si intitola Malattia e tempo, e Holly ne viene a tal punto folgorata che, con la violenta dedizione all’ideale che solo l’animo vergine dell’adolescente può perseguire a costo della vita, decide di dedicare la propria esistenza alla ricerca della verità sul giovane e misterioso genio tedesco, del cui transito terreno niente si conosce fuorché l’opera suprema che ha lasciato dietro di sé. Dal canto suo, Friedrick – stella polare di Holly e quasi ipostasi di una trascendenza senza la quale, ci avverte sottilmente il romanzo, non è pensabile la vita – rappresenta la summa dei valori che Holly cerca eroicamente di opporre alla decadenza, al disfacimento interiore ed esteriore di coloro che la circondano. E compiendo il balzo traumatico dalla casa al Fuori che ogni adolescenza comanda, Holly si trova a dover fare i conti con nuove rovine, con un mondo moralmente e fisicamente in frantumi, abitato non da uomini ma da ombre, spettri di sé stessi. Un mondo inaccettabile per il suo spirito puro, e desideroso di spezzare la catena di tutti i condizionamenti, per vedere nella loro essenza ultima la realtà e sé stessa. Per diventare, finalmente, sé stessa.
Commoventi e delicatissime le pagine di inizio libro in cui Andrea Leone ci trasporta nell’incontro tra la mente fresca e vergine di Holly e il romanzo senza ritorno di Friedrick – incontro, questo, in cui non faticheranno a riconoscersi coloro che, in un giorno della primissima giovinezza, sono stati a loro volta fulminati e rigenerati dalla lettura di una grande opera dello spirito.
Libro di demolizione, di malattia sanissima, atto d’amore per la purezza ascetica dell’adolescenza e al tempo stesso di fede verso una segreta integrità dell’individuo, Il suicidio di Holly Parker è tra i pochi romanzi italiani di questi anni che nulla concede né alle facili scorciatoie di certo minimalismo sciatto e attardato, da una parte, né all’imperante maniera cronachistica di troppi giornalisti impunemente prestati alle lettere, dall’altra. Al contrario, nella aperta vocazione massimalista, è romanzo che molto esige da se stesso e molto dal lettore, ripagando però del dispendio con l’incantesimo della vera letteratura: realizzare la grande concordia, quella che si ottiene quando una ben definita Weltanschauung , mettendosi al servizio del mondo interiore dell’autore, trasfigura e fissa quel mondo nella compattezza di uno stile univoco, rendendolo tangibile e riconoscibile al lettore.
E lo stile del romanzo deve certo molta della sua forza al fatto che Andrea Leone narratore vi ha trascinato dentro Andrea Leone poeta: ritroviamo qui lo stesso andamento percussivo de L’ordine, la stessa maniacale monodia di Hohenstaufen, il predominio della struttura paratattica su quella ipotattica, le lunghe e furiose invettive internamente sorrette da assonanze e anafore. Una prosa battente, insomma, dove il ritmo monodico gioca un ruolo decisivo e trova un corrispettivo nella struttura formale del romanzo, in cui si hanno continue giustapposizioni e sovrapposizioni di monologhi (un procedimento che ricorda quello di Thomas Bernhard, per esempio, in Verstörung, anche se più musicale in Leone). Così, come nelle famose scatole cinesi, scopriamo che dentro il monologo di Holly c’è quello di Friedrick, e dentro questo…
E proprio tale rimando ad altro, all’Altro, questo continuo sfondamento rivela la profondità d’intenti del romanzo, l’alta concezione dell’esistenza umana che sorregge l’opera: perché se la vita è intollerabile, diventa addirittura invivibile senza una grande idea che la conduca, senza un grande altrove che la seduca per sempre. Un grande, eccellente romanzo di una densità e di una forza uniche e irripetibili. Non esistono romanzi italiani paragonabili a questo, che appartiene in tutto e per tutto alla grande tradizione del malessere e della lucidità mitteleuropea.
Mauro Germani, La poesia e lo spirito
E’ un grido estremo, ultimo, un congedo, un addio cercato e definitivo, che Andrea Leone, poeta e scrittore autentico, ci consegna con un andamento intransigente, netto, assoluto, necessario, come quello di un classico. E a ben vedere, proprio dietro al dramma del personaggio Kleist, si può scorgere una dichiarazione di intenti da parte dell’autore in ambito letterario, cioè l’aspirazione ad una scrittura altrettanto assoluta, senza mediazioni e compromessi.
Questo libro, che si pone decisamente al di sopra della media di quanto oggi viene pubblicato, è davvero una prova di scrittura notevole, estenuante e ferma al tempo stesso, estrema e precisa nel disegno di un personaggio abbagliato dallo spirito e votato all’autodistruzione per trovare la sua immortalità, per non soccombere alla volgarità che domina il mondo. Kleist s’impone con tutta la sua forza come una figura destinata a restare nella sua tragica necessità.
Lorenzo Chiuchiù, Poetarum Silva
«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia», scrive Camus. Lo stesso quesito decide anche della letteratura: se in gioco non c’è la vita, allora non è che decorazione e chiacchiera. Il fenomenale Il suicidio di Holly Parker di Andrea Leone (Ventizeronovanta editore, 2016) costruisce una sorta di tribunale che chiede l’impossibile: chiede ragioni alla vita.
Antonio Devicienti, Via Lepsius
Hohenstaufen di Andrea Leone (Forlimpopoli, L’Arcolaio, 2016) si struttura grazie a una tesa e sontuosa retorica che sostiene questo libro-poema dall’inizio alla fine, conferendogli un andamento peculiare capace di farlo distinguere nettamente rispetto alle scritture poetiche attuali – e intendo il termine ῥητορική proprio quale arte (τέχνη) dell’imbastire e strutturare il discorso, del saper conferirgli efficacia espressiva e persuasiva (non nel senso, quindi, attribuito al termine “retorica” da Carlo Michelstaedter e della sua distinzione tra persuasione e rettorica); inoltre scorgo nel presente libro una continuità forte con un’opera precedente di Andrea Leone e che avevo molto amato e molto ammirato, con quel Kleist (Milano, 20090, 2014) che, a sua volta, aveva saputo costruirsi in un unico, compatto, spericolato (per impianto e sua realizzazione) discorso dell’io privo di cadute e di cedimenti, ma sempre teso e capace di squadernare davanti alla mente del lettore un intero universo materiato esclusivamente e solo sorretto della forza inesausta del linguaggio. Lo stesso accade in Hohenstaufen, non più in prosa, ma, per lo più, in versi, in un monologo, articolato in 20 parti (delle quali 3 in quella che potremmo chiamare “prosa ritmica”) che mette in scena anche stavolta un io che ha nel linguaggio, nella sua sintassi e nella sua articolazione sonora forse l’unico mezzo serio ed efficace per dire e per dirsi, come se proprio il linguaggio fosse, per l’autore milanese, dopo e oltre e malgrado le avanguardie, il mezzo e il luogo fondante della conoscenza. Si tratta di una conoscenza che, però, va affermata ed espressa proprio per forza di retorica (d’arte del dire), cosicché l’io che in queste pagine manifesta sé stesso (il Barbarossa? Federico II? – anche se non importa più di tanto, volendo suggerire, credo, il titolo tramite il nome del casato svevo un’atmosfera che, molto appropriatamente, Lorenzo Chiuchiù nella sua perfetta Prefazione chiama “araldica poetica” ed “emblema”) l’io, scrivevo, dice un’autoaffermazione che non è titanica (sulla scia dello Sturm und Drang, per esempio, anche se certi afflati del movimento sono riconoscibili in alcuni passaggi – ne parlerò in luogo opportuno), né nietzscheana (non vuole fondare un’epoca nuova), ma, appunto, retorica, cioè totalmente affidata al saper dire, e, modernamente, non per convincere, bensì situata nel linguaggio quale unico canale di comunicazione tra io e mondo (e di rappresentazione dell’io e del mondo), non per cogliere ed esprimere messaggi più o meno latenti, sì invece per reclamare la propria esistenza rispetto ai fatti e alle cose. L’estrema labilità dell’esistere e addirittura l’in-consistenza di quest’ultimo, se non ci fosse il linguaggio per dirla e proclamarla, è, in apparente paradosso e a mio modo di vedere, il vero tema del libro: il Da-sein, esposto al nulla e in esso gettato, possiede il linguaggio per costruirsi e compiersi.
Questa di Andrea Leone non è scrittura che vada commentata o illustrata, ma essa va letta e ne vanno apprezzati quei grappoli di allitterazioni e/o di omoioteleuti, di anastrofi e d’inaspettati accostamenti verbali che intessono il testo, ci si deve rendere complici dell’autore che cerca e visibilmente ama e accumula quegli effetti che soltanto il ricorso a una lingua non quotidiana e non omologata può creare, che solo il gusto irrinunciabile e anche aristocratico per le figure di suono può inventare e rendere stupefacenti (sospetto che ci sia una lunga frequentazione della poesia di Stefan George dietro questo modo di scrivere e certamente, sì, ovvio, anche lo studio amorevole dello stile kleistiano e più di una suggestione da Gottfried Benn per quella capacità di contrapporre la sontuosità e la nobiltà della lingua e del pensiero al nulla, ma, pure, la memoria di certi soliloqui del Tristan wagneriano). La forza percussiva della lingua e in particolare di quella serie inesauribile di prime persone singolari, l’impiego transitivo di verbi normalmente intransitivi, le reiterazioni, il procedere per ondate successive e per un moto di spirale che, apparentemente ritornando su sé stesso, in realtà spinge il dire sempre un po’ più in là, tutto questo rende i testi di Hohenstaufen una liturgia dietro la quale, però, evidente e lancinante il dolore dell’esistere emerge, abolendo ogni pericolo di manierismo postmoderno e di giuoco linguistico fine a sé stesso o di sé stesso compiaciuto – osserverei, per esempio, che il “mattatoio” (ricorre più volte questo vocabolo nel libro) e il “manicomio” evocano in me i testi che un autore non certo omologato e non certo “docile” compose per il fraterno amico il fotografo Mario Giacomelli, vale a dire Francesco Permunian, uno di quei rari scrittori in questi anni capaci e desiderosi di opporsi alle mode dominanti nelle varie “scuole” locali e localistiche che soffocano la scrittura in Italia.
Hohenstaufen è, allora, anche, alla lettera, la messa in scena che l’io compie di sé stesso, ma, si coglie in molti passaggi dell’opera, qui viene rappresentato pure il farsi della scrittura, il proprio emergere alla luce, imbastirsi e affermarsi, il suo “andare in scena” appunto, sempre avendo coscienza dell’esserci, sullo sfondo, il caotico, l’indistinto e l’informe, e anche in questo come raccogliendo il magistero di altri autori tedeschi (Hölderlin, per esempio). Il Dichterwerk viene a esistenza solo se è capace di dire di sé, del suo proprio di-venire e accadere.
Il provenire dal passato per poter esistere nel presente e, nel contempo, l’essere nel presente per poter creare il passato, il possedere capacità creatrici, ma, contemporaneamente, avere la necessità d’essere creato, non risultano essere contraddizioni, ma, nel discorso di Andrea Leone, una matematica dialettica sottesa e necessaria alla complessità estrema d’essere io e, anche, opera d’arte nel suo farsi e nel suo compiersi.
Carmelo Bene (quello stesso che recita il lunghissimo monologo di Manfred) avrebbe amato questo libro di Andrea Leone, ché vi avrebbe riconosciuto la sua stessa dedizione alla parola quale architettura sublime di suono e di sintassi, di slancio mentale e di sfida al volgare, al banale, al brutale. Qui non c’è l’io o l’opera d’arte in preda a deliri d’onnipotenza, ma c’è, al contrario, l’io e/o l’opera d’arte febbrilmente vitali, giovani di slancio e antichi della sapienza che viene dal possedere natura umana e abitare il linguaggio.
Mauro Germani, Margo, Recensione a Lezioni di crudeltà
Poesia fondativa, alta, quella di Andrea Leone, contrassegnata da una parola che si staglia incontaminata nel suo essere. Poesia non di una voce, ma della voce. Poesia che nomina e nominando genera ciò che resterà, la perfezione, l’immortalità luttuosa ma anche luminosa del nostro destino.
Nei versi di Leone c’è l’apertura ad un oltre che già da sempre è qui, una lucida e spietata obbedienza ad una legge superiore, ad una forza che travolge e supera ogni dato biografico, ogni sorta di minimalismo. C’è la scoperta di un segreto da far proprio, la necessità di partire, di dire addio per poter poi ritornare altri, diversi, come atleti dopo una gara. C’è una volontà epica, un respiro ed una bellezza da ritrovare, un coraggio da manifestare, perché non ci si può sottrarre al comando segreto e crudele di questa parola inaudita, di questa vita inaudita. Bisogna osare, rispondere alla parola che chiama, guardare in faccia la sua ferocia, la sua ineluttabilità. E non ci si può sottrarre allo spavento (“Divento lo spartito dello spavento:/lo spartito spietato dello spavento), ma proprio quest’ultimo si rivela indispensabile, la scossa necessaria per un nuovo entusiasmo, per quella rivelazione che si annuncia a partire dalla coscienza “imperiale della fine”. Nell’epoca dell’inappartenenza e del disastro, occorre accettare il sacrificio, l’abbandono dell’effimero, scoprire le geometrie perdute, “la verità che non ha vergogna”. Se tutto è già avvenuto, occorre riconoscerlo, ascoltare e registrare quel monologo assoluto che ci parla come fosse per noi l’ultima possibile lezione, l’apertura di un sipario su una scena che “è l’esattezza di una bellezza/che non termina”.
Ecco allora il compito quanto mai necessario dei versi inattuali, sorprendenti e fortemente ritmati di Leone, in cui l’io che parla non è più, non potrà più essere l’io del poeta, ma la lezione limpida ed inequivocabile che travalica la nostra precaria identità, la lezione rigorosa ed assoluta della poesia, il suo dire intransigente, che è simile a quello degli Dei: “Io sono il delirio dei nomi estremi./Io sono le insegne del tempo che fu straniero./Io sono la feroce/festa che si dissolve”. Come afferma Michelangelo Zizzi nella prefazione al volume “quell’io moltiplicato, fuorché essere compulsione egopatica, è limpidezza d’ambire ad una migliore aristocrazia de sentire – vedere ogni cosa”.
Andrea Leone sa che scrivere significa apprendere questo insegnamento, senza più fuga alcuna, per essere finalmente lì, nell’ “estrema battaglia del battesimo”.
Tommaso Labranca, nota introduttiva a Il suicidio di Holly Parker
Improvvisamente, a metà del secolo, sulla scena della letteratura mondiale irrompe Malattia e Tempo, possente e complesso romanzo scritto da un adolescente, Wilhelm Friedrick, morto a soli vent’anni. L’opera di Friedrick diventa oggetto di studi infiniti. Un gorgo che attira e sconvolge menti soggiogate da quell’enorme mole di pagine che «agisce su di loro come un pugno». Tra queste c’è una ragazza inglese, Holly Parker, che intorno a sé vede soltanto «manichini della morte, oggetti dell’idiozia, mummie della follia, bambini deformi dalla volontà di morte». Holly, vittima della fascinazione di Friedrick, fugge dal suo incubo adolescenziale per raggiungere Wilhelm e precipitare in un nuovo incubo intellettuale. Andrea Leone ha saputo creare un labirinto in cui si danno appuntamento personaggi disturbanti e indimenticabili, assassini, incestuosi, individui folli reclusi nell’oscurità da individui altrettanto folli. Se per il lettore è già impossibile cacciare dalla testa le storie di comprimari che Leone tratteggia in una manciata di righe, le menti alineari dei protagonisti, Holly Parker e Wilhelm Friedrick, torneranno a mettere in dubbio le basi sulle quali molti costruiscono la propria visione del mondo.
Tommaso Labranca, nota introduttiva a Kleist
Non basta leggere queste pagine con gli occhi. Bisogna affinare tutte le sensibilità, anche quelle più rarefatte, per rendersi conto che questo è un romanzo tridimensionale. Dietro il racconto febbrile con cui Kleist si congeda dagli uomini, si formano intorno a noi gli spazi austeri e in penombra di un palazzo neoclassico tedesco, si percepisce l’odore della polvere da sparo mescolata al profumo dei fiori serotini, si ascolta un violinista impegnato a ripetere un difficile passaggio di una sonata.
Manifesto filosofico o gioco dell’immaginazione che trasfigura eventi reali. Flusso di parole cui abbandonarsi o percorso in cui ogni vocabolo nasconde un altro significato. Il monologo di Kleist resta una potente dichiarazione di libertà umana.
Lorenzo Chiuchiù, La poesia e lo spirito
«Ci sono soltanto due trascendenze verbali: i teoremi matematici e la parola come arte» (Gottfried Benn, Futuro e presente). L'ordine di Andrea Leone muove da queste due trascendenze per costringerle ad una collisione violenta. Trascendenza del teorema che esibisce il tragico come insuperabile tratto destinale, trascendenza della prosa come arte che brucia il finito nell'astrazione più inflessibile. Sono queste forme di un giudizio inappellabile che investe l'esistenza, illuminandola di una luce livida e insieme aurorale. Giudizio di chi? Non di un io. Andrea Leone è un lirico, ma è forse necessario tentare di definire in che senso lo si afferma. In Andrea Leone il lirismo non è infatti assimilabile alla tradizione che ne ha definito il concetto. I versi de L'ordine non credono al soggetto, al singolo, alla storia.
«L'ordine è un libro del nord», scrive Milo De Angelis. Accade che il nord impassibile, simile ad una coordinata astrale, di colpo precipiti nella biografia: iniziano così le guerre di cui parla Rimbaud: «Il combattimento spirituale è brutale come la battaglia d'uomini (Una stagione all'inferno). Il combattimento spirituale, quello che esige tutto dalla parola («ciò che noi vogliamo è tutto» sentenzia Hölderlin ne il Frammento di Iperione), decide del destino del poeta. Nessuna salvezza personale se non è affidata al verso, al suo rischio gratuito: sono solo i versi a giudicare il poeta, a condannarlo o a graziarlo. Andrea Leone guarda alla tradizione che ridefinisce il senso del lirico: si pensi alle epifanie di Hölderlin che precipitano nell'impronunciabile che proprio in quanto tale deve essere pronunciato, alle stelle struggenti di Trakl che intercettano lo sguardo del poeta, costringendolo al rischio della morte o della follia; si pensi infine all'estinzione come referto autografo in Benn. «Voglio affilare al secolo il referto di un inferno», scrive Andrea Leone. E ancora: «È un ordine: impara / a distruggere. / È un ordine: impara nell'ora morta l'ora spietata, impara / la Grecia e la Germania». Il poeta deve «dissezionare la luce» perché questa violenza restituisca alla pagina la vita che «fugge via, bellissima», perché «tutte le mattine/ tutti i cori e i calendari» ritornino pronunciabili: «Ritorna,/ quieta, uguale / stagione giovane delle fortune».
La lirica di Leone sembra farsi carico di un'antica sapienza: «Molte sono le cose terribili, scrive Sofocle, ma la più terribile è l'uomo» (Ant., v. 322). Ecco il deinon, il “terribile” di Sofocle, o seguendo due differenti traduzioni di Hölderlin, ecco l'«immane» e la «violenza». Terribile la voce che esige l'irripetibile, che evoca destini per farli a brani, che misura le ere con il cronometro. La sospensione del tempo, l'atemporalità lunare di alcuni versi de L'ordine rivela uno spasmo del continuum: «Un intero anno non accadde», segue un puntuale, monadico, excessus mentis: «Esattezza. Violenza. Meta. Frana. Fortuna. Vittima. Ultima anima. Insalvabili mattatoi matematici. Istanti degli efferati collassi e calcoli. Formule del termine». La vita, racchiusa «nel segreto empio del tempo», emette la sua sentenza: «Eterno è ciò che si è perso». Non restano che «sostantivi monolitici e precisi» (Milo De Angelis), pietre che nel deserto erigono torri silenziose e ingiunzioni. Nessuna consolazione dalla vita che pure è apparsa indubitabile nella sua forza costrittiva. La trascendenza cui fa riferimento Benn riprecipita sempre nel mondo sublunare, non ascende all'iperuranio; e non è per intrinseca debolezza ma perché la vita è quell'apeiron che, come insegna Giovanni Semerano, lungi dall'essere «l'infinito», o peggio «l'indistinto», è la verità innumerevole e a tratti ustoria della polvere.
In questo senso non esiste in Leone la dimensione onirica: non esiste la trasgressione che elude, la fuga nell'innocuo indeterminato cui segue un risveglio con un rimpianto o un sospiro di sollievo.
Qualcuno scrive: «Eseguo, geometrico e violento, il segreto»: solo nel segreto di un remoto, «eterno teatro», solo dall'ossessione di una veglia lucidissima può risuonare un «grido di grazia». Grazia per la polvere, per la vita.
Giampiero Marano, "L'indice"
Esistono strutture normative grette, omologanti, create artificialmente per offrire alibi e riparo a chi arretra di fronte al rischio dell’impresa, a quanti hanno scelto di essere indulgenti: contro queste finte armonie prestabilite è legittima e inevitabile la ribellione.
Ma esiste anche un Assetto più alto, sia pure nascosto o dimenticato: qualcosa di molto vicino alla necessità dei cicli cosmici e all’infallibilità della legge naturale, qualcosa alla cui presenza sarebbe meschino e servile, questa volta, il non conformarsi, il rifiuto della sottomissione. E’ di tal genere l’ordine chiamato in causa dalle parole di Andrea Leone, a volte così simili a un’evocazione, a una preghiera tesa e potente: "Tu sei la luce inflessibile / che dice, nelle mattine definitive. / Tu sei la lezione dell’ordine (…)". Nel riferimento alla perentorietà della luce e dell’ordine si rinnova l’esperienza conoscitiva peculiare della grande poesia greca e romana, quella della circolarità del tempo: "Torna il Ventun Dicembre, / torna la carezza della terra, / torna la salita tra le guglie del Duomo, / torna la carta geografica, la stanza entusiasta / di una nascita". L’ordine dunque non è soltanto un "libro del nord", come sostiene Milo De Angelis nell’autorevole presentazione, ma anche la stupenda testimonianza di una mediterraneità ctonia, lunare, che, calandosi spietatamente nella quotidianità metropolitana, diventa il "materiale, insaziabile, adulto / ade delle strade". Infine, la certezza della punizione che raggiungerà l’individuo (colpevole di essere nato, cioè di avere abbandonato l’unità originaria dell’essere) è già scritta in quel tragico gioco del sorgere e del tramontare delle cose riflesso in uno dei versi più folgoranti dell’intera raccolta: "Ti accade di essere il mondo: ti accade di scomparire".
Stelvio Di Spigno su Lezioni di crudeltà
Una poesia verticale e divinatoria come quella di Andrea Leone prefata da un grande poeta come Michelangelo Zizzi costituiscono un evento rarissimo nella babele della nostra letteratura.
Elio Grasso, recensione a Scena della violenza
Leone, in Scena della violenza, scritto tra i diciassette e i diciotto anni, consente e una "parete delle parole" di manifestare la propria serietà, di arrivare là dove noi siamo giunti dopo. Se ancora ci mancavano alcuni frammenti per tentare di capire il nostro presente, per affondare una mano nel mulinello senza venirne catturati, ora questa libro ci aiuta. E' in una fermezza del passo, di scoperta e impiego della lentezza, che queste pagine si sollevano dal clamore generale, dalla luci troppo vivide e dall'oscurità più incalzante. E incontro alla solitudine, una stagione che sembrava scomparsa dalla memoria: "il passato cancella il futuro", come gli enigmi raccolti in un sola punto della spazio la annientassero in un attimo: cosa rimane di determinante nei pressi della coscienza, oltre a una poesia che attui la sua vera vita, e si sovrapponga alle vita che ci fa respirare. Sembra che in uno spavento lasciato passare con grande dignità si conformino gran parte delle regole che Leone realizza, come sguardi ìnstancabili, all'interno delle siue poesie. I dolori ci sono già prima, ma quanto s'era allontanato si riavvicina speditamente, in modo che si possano ascoltare le esili voci condannate. Così il libro continua parlarci dopo che lo si è chiusa e riposto. Dopo qualche esitazione molteplici dubbi iniziano a ronzarci intorno, e non è facile capire che noi stessi siamo il problema. Perché questa poesia, la sappiamo, parla di noi, di noi dentro gli squarci del tempo nella debolezza delle dimore, nelle cadute, nella violenza.Non possiamo pensare d'essere immuni dai duri attacchi che l’esistenza ci pone di fronte. Il sangue si oscura, la mente si appanna (…ruvida lettura / disegnare il cammino brutale, / redimere sezioni della fortuna, / incontrare per sempre / queste contee del sangue...") proprio quando, incontrando una luce, scoprirle la deformità. Il paese che ci ospita, avverte Leone, non ha speranza, è fatto con le stesse piegature dolorose dei dipinti di Bacon. In questa scenario che difficilmente accetterà correzioni, quale vaccino ci salverà dai “relitti", dal "crepuscolo", dal "collasso"? Una poesia che certo non ammette la lontananza, l’abbandono a false correnti di salvezza, ammesso che esistano. Una fedeltà a se stessa, alla memoria del poeta che la fa, è quanto ci azzardiamo a chiedered d'ora in poi. Perché, nella consapevolezza, aiuti a resistere in ogni ora dei giorno, anche dovendo giungere parecchio lontano. Ce lo deve forse, la nostra terra, così come a lei dobbiamo la scoperta dell'origine della malattia. Leone è una voce giovane: il dato anagrafico conforta per il futuro della poesiam oggi lasciata al nostro sguardo da poche ma rigorose presenze. I suoi archivi si aprono molto bene in una zona che diremmo ridotta all'affanno. Una fedeltà lo porterà avanti.
Gianluca Chierici, Absoluteville
Tenendo tra le mani Il suicidio di Holly Parker, nel respiro di una lettura che non conosce pause, si sente tremare la terra del racconto, si sentono le radici della poesia sbranare il profondo d’una prosa tripla e potente. Dalla stanza, l’incubo lacera l’ellisse che porta alla mente. E’ implacabile il ponte, e una soglia si crea perfettamente invisibile, dall’ordine indiscusso dello spavento, tende la sua fine oltre i protocolli, oltre le scosse della crudeltà.La stessa forza, lo stesso schianto, nella poesia e nel romanzo. Una voce unica, ineccepibile. Il respiro di un incendio.
Antonio Devicienti su Kleist
Uno scrittore di livello europeo. Libri indimenticabili e straordinari, che segnano e cambiano il modo di immaginare la scrittura.Hohenstaufen e Kleist, due opere di rara forza nell'esangue universo letterario italiano, capaci di legare due culture e due lingue lontane e vicine nello stesso tempo, due mondi che si attraggono a vicenda, portando nella letteratura italiana quel difficile equilibrio, tipico della letteratura tedesca, tra luminosità e tenebra, tra follia e razionalità, tra empito verso le imprese più ardue e dolore della condizione umana.
Cristiano Poletti, Poetarum Silva
Venti poesie, un distillato. Una fermezza speciale nel testo, una forza che deriva, io credo, da un tremore a lungo appartenuto all’autore. Una poesia “grossa”, vasta, alta e solenne, quella di Hohenstaufen, larga, capiente: un dettato che possiede senz’altro molta grandezza, e molta vertigine. La scrittura di Leone ha in questo un fascino terribile, e invita continuamente, profondamente, all’analisi del testo, quasi richiamasse il lettore in un vortice analitico, piena di festa e di sacrificio com’è, capace come in pochi casi di una voce che non si risparmia: «Invado i documenti e i demoni, il metro e l’esito, il sepolcro e l’esordio». L’oggi del mondo si fissa nel presente delle epoche passate: lo spirito moderno (l’eco di Hölderlin); l’età medievale (gli Hohenstaufen appunto, i duchi di Svevia imperatori e re di Sicilia tra XII e XIII secolo); l’antichità soprattutto, la sua prospettiva che in noi continua a riformarsi, quella luce nella quale ci troviamo costantemente risospinti: «Non so chi tu sia,/ mia età nuovissima./ Non so quale Dea/ stia preparando la mia età antica». L’intendimento dell’autore è questo: legare anni, età, epoche, ere. Un’opera d’arte ci fa pensare, sempre. Ci sono immagini e termini in questo libro che sono categorie della mente, che “spietatamente”, vorrei direi, fanno da collante poematico: Dèi, teatri, matematica e musica (la musica, assolutamente, i suoni che emergono ad esempio in questo passaggio: «Sto per essere/ abbandonato al sacro/ massacro del calendario e del miracolo»). E poi nascite e dinastie, sentenze, mattatoi, mentre s’inscena di continuo la rincorsa tra esordio ed estinzione. Già, s’inscena: è una messa in scena infatti, quest’io. In teatro, sul palco, la pronuncia dell’io è l’unica via per poter rappresentare il mondo, sembra volerci dire Leone, l’unico sguardo che può mettere a fuoco il noi e il voi del mondo. Un io-linguaggio, la costruzione del linguaggio che è la casa dell’essere.
Alessandro Bellasio, La costruzione del verso
Con acuminata chiarezza, con verticalità intransigente e percussiva, Andrea Leone, metronomo inflessibile dello spavento e del disastro, con il recente Hohenstaufen avanza a grandi passi, e anzi in perentorio affondo, verso i territori estremi del suo dettato, fedele a un’idea assoluta di poesia che, fin dal libro d’esordio del 2006, L’ordine, persegue una parola bruciante, in piena detonazione, ma severamente controllata e spolpata di ogni concessione tanto biografica quanto elegiaca. Malgrado l’iperbole cui viene sottoposta la prima persona singolare (o forse in virtù di essa), in Hohenstaufen l’io è oggetto di un transfert che nulla concede all’immediatezza del vissuto, ma viene piuttosto condotto a viva forza nella dimensione dell’archetipo e dell’evento. L’io è cioè destituito di ogni sovranità per farsi sede medianica di un trapasso, soglia bruciata dall’attraversamento a cui è sottoposto a contatto con le potenze del linguaggio e dell’essere. Non si tratta di un io che dice, bensì di un io che è detto, quasi rimbaudianamente, da altro. Si tratta di un io, e dunque anche un bios, revocato, giustiziato: «l’assideramento senza momento | da cui discendo» e «esordisco esempio dell’estinzione […] divento il testamento, il tempo». Spezzati così i legami con ogni cronaca, il linguaggio, e con esso il poema, è risucchiato in una zona di tensione e allarme immanente al poema stesso e dove il senso, al di là della resa editoriale dell’oggetto-libro, più che allinearsi orizzontalmente in versi dà invece l’impressione di aggregarsi in torri e bastioni, di scolpire sul foglio il profilo granitico e guerriero di una colonna dorica, deputata a reggere il peso di divinità terribili, forse proprio quelle che aprono la raccolta e di cui è detto che «morirono | nella matematica della casa millenaria | e in tutti i mattatoi del mattino». I versi di Leone sono da sempre animati da una vis assertiva qui confermata e che hanno certe opere scritte in prossimità del giorno del giudizio. Così, con quell’entusiasmo congelato che da sempre lo contraddistingue e che funziona quasi come un dispositivo per l’accumulazione della tensione conoscitiva, Leone, mantenendosi in una zona limite tra esplosione e implosione, incide letteralmente i suoi versi su una carta pietrificata, accumulando e raffinando il materiale grezzo degli archetipi, che vengono impilati gli uni sugli altri secondo una logica di commistione e convergenza (quasi di infezione e di contagio) tra antico e contemporaneo, remoto e prossimo, in un vertiginoso avvicinamento delle epoche.
Gianpaolo Mastropasqua, La poesia e lo spirito
Immaginiamo un futuro remoto. Immaginiamo l’anfiteatro dell’isola di Delo o le perfezioni auliche di Epidauro delle feste panelleniche, immaginiamo un attore-creatore di smisurata grandezza, un Artaud, un Bene, un dio della Scena immerso nel paesaggio tragico che fu di Eschilo, immaginiamo che cominci a proferir parola, ad essere parola e delirio tra le pietre sperdute e incrollabili mentre tutto intorno brucia, divampa, invadendo ogni sfondo, ogni città umana per l’ultima recita del mondo.
Ed è il tempo che non lascia scampo, questo, un tempo infimo, misero, privo di grandezza, di altezza eroica, di gesta atletiche, un tempo che ammala con le malattie definitive della razza umana.
“Lezioni di crudeltà”, pubblicato per l’ammirevole editrice Poiesis, è la lezione del distacco alla ricerca di un tempo di esseri incorrotti, l’impresa estrema di Leone è “poesia e destino”, è superare il tempo odierno per rifondare, attraverso un crudele, necessario e marziale esercizio di progressiva perdita dell’effimero, per ritrovare il ritmo dove pulsa l’intreccio tra razionalità del divino e razionalità del corpo, il battito incessante della Bellezza, la cifra olimpica dell’inizio di un tempo che sia epopea altissima <>. Il presente non è che un trucco infantile, una commedia di spettri mediocri che nasconde la crudeltà altra, quella bestiale, meschina, una crudeltà senza precedenti che condanna e ammazza i suoi figli geniali impedendo loro di nascere, costringendoli a “partire” presto con il “giovanissimo Dio antico”.
Leone racconta il suo vivo “romanzo del disastro e dell’entusiasmo”, poiché si deve essere “maledettamente” crudeli per resistere allo sfacelo, per schernire questo mondo infante che non vuole crescere per raggiungere l’eterna adolescenza delle morti sublimi, l’adolescenza che si sottrae dall’essere una categoria evolutiva, cronologia, divenendo battito devastato dell’assoluto. La stirpe di Leone è la banda dei poeti adolescenti della bellezza vera (Drieu la Rochelle, Rimbaud, Cvetaeva, Fortini, Gatto, ecc…) coloro che hanno condannato per patto e per nascita ogni cortigianeria e ogni setta in un atto, in un gesto che è trascendenza nobilissima perché “la fusione di sforzo supremo e armonia riproduce nelle membra una vicenda cosmogonica, un caos che diventa ordine necessario delle cose”(M .De Angelis) per l’aderenza totale alla purezza. Leone vuole che il mondo sia dei valorosi e divenga ‘grande’, ma attenzione non è da intendere come adulto, difatti nel divenire adulti per l’autore risiede tutto il male del mondo (la corsa all’utile, i disillusori, i falsi miti, i traditori, le donnette ammiccanti, i venditori venduti, i ladri d’ogni razza, gli assassini della bellezza, i cortigiani del potere, i ragionieri in carriera letterata che si fingono liberi, i dissacratori, in una parola “gli storpi”, quei mediocri mascherati che fanno rivoltare nelle tombe eccelse i grandi poeti adolescenti, strumentalizzandoli per giungere al successo… da letterine) Soprattutto in tal senso Michelangelo Zizzi nella prefazione straordinaria (anche etimologicamente) afferma che i veri poeti sono antidemocratici, antidemocratici soprattutto rispetto a se stessi e definisce la poesia di Andrea Leone come atto “monologico e non dialogico, c’è la ‘pax iuxta’ dopo il confliggere di una lotta necessaria”, di un corpo a corpo con la parola che diviene ossessiva, esatta, ripetitiva, nel ripetersi inverso dei cicli e delle stagioni, del kairos di una fioritura estrema. Lezioni di crudeltà è un’entrata commovente nell’antico e nell’imperativo presente della meraviglia.
Ilaria Seclì, La dimora del tempo sospeso
Sopravvissuto al mondo, nato a sproposito, imperdonabile. Kleist.
Il Caucaso è il suo destino, votato all’irripetibile eppure costretto dall’appello della nascita a piegarsi, piagarsi, per forza di respiro, ai rituali mortiferi della macchina, alla monotona crocifissione direbbe Artaud, e per di più, su una croce di legno scadente. Il becco d’aquila in dotazione ai giorni, inflitto pane quotidiano, condanna.
Kleist, angelo purissimo tra ottusi funzionari della specie, è il protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Leone, pubblicato da “20090” nella nuova collana Miyagawa.
Kleist è angelo tra i malati mortali che infettano con la loro malattia inguaribile, col loro esercizio di mediocrità, stiletta ossessivo Leone. Lo stesso esercizio imposto dai padri, lo stesso che nutre irrimediabilmente e meccanicamente una servitù malata costretta a senili e patetici tentativi di esistenza, quella dei plebei funzionari della specie, quella dei soldati di stato, gli educatori che fagocitano le nostre vite, ci arruolano nel teatro della follia e della privazione di ogni libertà.
Luogo di martirio è il mondo. Questo mondo, stagnetto per omuncoli orfani di vita, stanca ripetizione e riproduzione imbecille di sì, di pseudovivi cittadini obitoriali deambulanti nel seriale accadimento del niente, nell’accidente che siamo, nella patetica debolezza e evanescenza di una vocina all’interno di altissimi abissali muri che istituzioni d’ogni sorta alzano per proteggerci dalla vita, per salvarci da essa, per farci soggiornare nella lunga vigilia e veglia che precede la morte, unico atto liberartorio, unico squarcio, svelamento.
Il martirio, per Kleist, è essere nati. L’essere costretti a un cognome, a un destino esteso quanto un acquario domestico, una rotatoria urbana, cani alla catena sperduti in stanzoni di caserme dai muri altissimi.
Il ricamo macabro di ciò che in questo mondo non corrisponde è cucito nel nome di battesimo, nei muri delle case e delle aule. Ciò che non corrisponde sono i maledetti e i puri, esseri rosicchiati dal mondo, consumati dalla distanza col mondo. Nessuno scaffale per merce simile, ovunque tu vada, in qualsiasi supermercato della terra, nessuna etichetta li identifica. L’inchiostro della loro esistenza serve solo a condannarli all’ordine alfabetico dei registri, delle carceri legalizzate, uffici dell’anagrafe, all’eredità genealogica e tirannica della cornice dentro cui dalla nascita veniamo depositati e deposti, argomento e traccia, argine, contenitore. Dati e fissati per sempre. Dadi.
Andrea Leone ci porta ancora nel grande freddo, nell’atroce astinenza, nei perimetri asfittici senza finestre né luce delle camere mortuarie della società, della famiglia, della fabbrica indottrinante, dell’imbecille e inetto capostipite. In questi recinti si muovono umani defunti a se stessi e alla vita, servi obbedientissimi, solerti obliteratori di tappe sociali, inseriscono e memorizzano egregiamente il PIN del loro sporco esercizio di potere. Scannatoio della vita. Remotissime connessioni umane.
Leone a ogni passo ricorda l’ignifero e feroce Artaud, tenerissima e crudele creatura immolata sull’altare marcio e misero del mondo: “Ondata dal fondo, che viene avanti con la sua orribile dentatura d’esseri, fatti per ingoiare tutti gli esseri, ma che non sanno mai dove sono”.
Come Artaud diffida di ogni porta da cui passare e nessuna gli appare sicura poiché sa che apre solo su prigioni: “Ah, se ogni camera fosse stata illuminata come al tempo in cui dai versanti delle montagne, aprendo davanti a me la porta dell’immensità, vedevo l’infinito senza serratura e senza chiave!”.
Andrea Leone continua la sua battaglia contro la legge di necessità. La sua silenziosa e nobile eleganza non glielo fa dire, ma la battaglia coinvolge tutti noi, eredi, ab origine, del cosmo, di ben altre ineffabili leggi e fulgidissimi destini. Diventati poi, per qualche decreto ministeriale, affittuari di matrioskine, feti in barattolini di formaldeide. Non è possibile rimediare, scrive, ma almeno è possibile vendicarsi. Leone diventa anche per noi un più tremendo gigante che si oppone al gigante. Vincere o perdere è un fatto del mondo, non lo riguarda.
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